L’ICONOGRAFO, PRESENZA A SERVIZIO DI DIO DENTRO LA COMUNITÀ

In un saggio di qualche tempo fa, dal titolo “Sulle orme degli antichi iconografi” inserito nel catalogo della mostra “L’oro dell’anima” svoltasi a Bergamo nel 2010 con le icone della Galleria Tret’jakov di Mosca, Giovanna Parravicini, studiosa e autrice di numerose pubblicazioni, responsabile della “Biblioteca dello Spirito” di Mosca e fra le voci più autorevoli della Fondazione Russia Cristiana di Seriate (Bergamo) e Milano, ha dedicato un passaggio molto significativo alla figura dello “scrittore” di icone, appunto l’iconografo. Ecco il testo integrale.

di Giovanna Parravicini
La complessità e multiformità dei processi pittorici faceva sì che l’icona nascesse per lo più all’interno di laboratori iconografici in cui lavoravano vari artigiani, falegnami e gessatori, e che rappresentavano un conglomerato di diverse arti e mestieri: pittura, oreficeria, lavorazione del metallo e del vetro, del cuoio e così via. Anche tra gli iconografi c’erano maestri di età, esperienza e abilità diversa, e non era raro che gli aiuti eseguissero i fondi, le architetture, scritte e altri elementi secondari, mentre al maestro era affidato il compito di dipingere i volti, le «effigi».
Parlando dell’iconografo e del suo lavoro, verrebbe quindi facile catalogarlo come un fedele esecutore di un canone esterno a lui, inserito in un contesto di sequela e obbedienza che ricorda da vicino l’esperienza del monachesimo: nulla di più lontano – parrebbe – dalla concezione moderna di artista come espressione geniale e individualissima. Anche questo aspetto, che può facilmente sconcertare noi moderni, come tutti gli altri già segnalati, è in realtà tutt’altro che secondario o insignificante. La figura professionale dell’iconografo e il suo lavoro sono espressione della coscienza fortemente condivisa in epoca medioevale, del concepirsi al servizio di Dio all’interno della comunità – esemplata in questo caso dalla «brigata» iconografica diretta da un maestro anziano ed esperto. L’artista non si firma, oppure firma l’opera come eseguita «per mano» sua, nella consapevolezza che l’autore dell’opera è Dio stesso, presente nella Chiesa e nella tradizione, a cui l’iconografo presta le mani. Il processo esecutivo attraverso cui nasce l’icona acquisisce in certo modo, in questo senso, un’analogia con il Mistero supremo, l’Eucarestia, di cui il sacerdote è sì veicolo, strumento eletto, ma non artefice. Nell’artista e nel processo di pittura dell’icona si osserva, in definitiva, la medesima antinomia che è propria della vita cristiana e che i Padri della Chiesa così riassumono: «Il battesimo rinnova e fa risplendere l’icona di Dio, ma per produrre la somiglianza Dio attende la nostra collaborazione; allora la grazia incomincia a scrivere sopra l’icona la somiglianza» (Diadoco di Fotica).
In realtà, il margine di creatività dell’icona è immenso, come dimostra la lunga storia dell’icona (di cui l’icona russa è solo un capitolo, per quanto estremamente ricco e interessante), che arriva fino ai giorni nostri, raggiungendo nuove e sorprendenti espressioni artistiche sia in Oriente come in Occidente. Come può notare un osservatore attento, la differenza principale tra le diverse scuole iconografiche e le correnti che si sono succedute nei secoli sta proprio nella rappresentazione della luce, e del suo effetto nel campo del visibile. (…) Si passa da una luce netta, che colpisce e modella figure e volti piovendo repentinamente dall’esterno, oppure una luce morbida e tenue che si irradia dalle figure stesse rendendole luminescenti.
La percezione della luce (la luce visibile, che a sua volta è percepita come immagine o simbolo di quella invisibile) e la sua rappresentazione non appartengono alla tecnica dell’iconografo, rappresentano una teologia dell’icona concreta e implicita. Non è un caso che «luce» sia il termine tecnico usato tradizionalmente per indicare lo sfondo nelle icone. Tutte le figure sono rappresentate e contemplate su questo sfondo, «la luce incorruttibile», o gloria.