SINIAVSKIJ: “PER I RUSSI LE SANTE ICONE SONO LA VITA” (2)

Mi soffermerei, a questo proposito, su un testo letterario del XVII secolo: Il racconto della resistenza dei cosacchi del Don durante l’assedio della città di Azov. Questo racconto, redatto in una lingua molto viva, dipinge la vita del popolo, una vita in tempo di guerra, è vero, e quindi molto particolare, ma esposta sotto una particolare angolazione che ci interessa in rapporto al nostro discorso sulle icone. Perché il racconto, si può dire, sviluppa il tema “la guerra e l’icona” in un’interpretazione strettamente popolare.
L’opera intende descrivere un fatto storico reale: l’assedio, durato tre mesi (nel 1641), della città di Azov da parte dei turchi: la forma è quella di una relazione allo zar Michail Fëdorovic. Lo sfondo storico è il seguente: i cosacchi del Don, di propria iniziativa e senza consultarsi con Mosca, si erano impadroniti della città di Azov, alla foce del Don, un importante avamposto turco sulle rive del Mar Nero. Il sultano turco aveva mandato davanti ad Azov un immenso esercito di duecentocinquantamila uomini. I cosacchi non erano neppure diecimila, ma essi sostennero l’assedio e, per continuare a tenere Azov, decisero di consegnare la città allo Stato moscovita. Ma Mosca, temendo una guerra con la Turchia, rifiutò di annettersi Azov.
Il racconto dell’assedio è molto importante poiché ci informa sull’ambiente veramente particolare dei cosacchi e sul modo di vita di queste truppe indipendenti, quasi esclusivamente costituite da ex servi della gleba fuggiaschi. Vediamo disegnarsi un tipo sociopsicologico molto pittoresco, quello di un combattente, o, per usare la lingua d’oggi, di un patriota russo, che è al tempo stesso bandito e ladro agli occhi dello Stato. Il termine “ladro” un tempo non si applicava soltanto a quelli che avevano rubato qualche cosa, ma designava anche il traditore, il ribelle e tutti quelli che osavano mettersi fuori dalle leggi dello Stato. In base a questo criterio, tutti i servi fuggiaschi di allora e tutti i dissidenti di oggigiorno sono dei ladri, anche se si sono limitati a sottrarre se stessi all’autorità statale. L’ambiente cosacco è un miscuglio di nobiltà cavalleresca, ardimento brigantesco e ascetismo monastico.

Ecco come i cosacchi definiscono se stessi, rispondendo all’offerta di arrendersi fatta loro dal sultano, il quale ricordava anche che essi, gli assediati, agli occhi dello Stato moscovita erano in realtà dei criminali: «Sappiamo bene anche senza di voi, cani, in quale gran conto noi si sia tenuti nella Moscovia… Lo Stato moscovita è grande, vasto e popoloso, e risplende come il sole tra tutti gli Stati e orde busurmane, elleniche e persiane. Noi per la Moscovia valiamo meno di un cane puzzolente. Noi siamo fuggiti dalla Moscovia, dal lavoro perpetuo e dal servaggio, dai boiari e dai nobili dello Stato e ci siamo stabiliti qui, in questi deserti impenetrabili e qui viviamo con gli occhi rivolti a Dio. Chi si preoccupa per noi lì da loro? Sono fin troppo contenti della nostra fine. Da loro non riceviamo mai né pane né provviste d’alcun genere. È il re del cielo a nutrirci, noi coraggiosi, nella sua grande bontà, di animali selvatici e pesci marini. Noi viviamo come gli uccelli del cielo: non seminiamo e non lavoriamo la terra e non ammassiamo il frumento nei nostri granai. Ci nutriamo di ciò che ci dà il mare turchino. Del vostro argento e del vostro oro che ci prendiamo al di là del mare. E ci scegliamo anche le vostre donne più belle e ce le portiamo via».
In altri termini, i cosacchi compiono delle scorrerie sulle coste turche, depredano i villaggi e rapiscono donne e fanciulle. Nonostante ciò, essi ritengono di vivere secondo il comandamento evangelico, come gli uccelli del cielo: non seminano e non raccolgono, non si curano del domani e non accumulano ricchezze. Si può comprendere facilmente cosa significhi tutto questo: ciò che saccheggiano lo dissipano… e si sentono simili a poveri uccelli nel deserto, come ha ordinato Cristo… E in questo ambiente di briganti, prodi e asceti al tempo stesso, le icone godevano di un’autorità eccezionale. Si trattava di icone locali, appartenenti ai cosacchi, che essi si erano portati ad Azov e alle quali si raccomandavano come principale protezione contro gli assedianti busurmani. Le più importanti, secondo il racconto, sono quella di san Nicola il Taumaturgo, senz’altro perché egli è il pronto soccorritore e questi combattenti proprio di ciò hanno la più grande necessità, e quella di san Giovanni Battista, che era considerato il patrono dei cosacchi del Don perché aveva vissuto parecchi anni nel deserto e i cosacchi, stabilendosi nel deserto (vale a dire in luoghi disabitati e inospitali) a loro rischio e pericolo, ne seguivano l’esempio; un altro motivo poteva essere il fatto che a san Giovanni Battista era stata tagliata la testa, sorte che attendeva più o meno ogni cosacco: sia che la perdesse in battaglia contro i turchi, sia che lo zar russo lo facesse decapitare, eventualità tutt’altro che remota per dei briganti e traditori della patria come loro. Comunque fosse, tutta l’azione della storia dell’assedio ruota attorno alle due icone: quella di san Nicola il taumaturgo e quella di san Giovanni Battista. E tutte le volte nel destino delle truppe cosacche sono legate a queste due icone: i combattenti vengono a domandar loro consiglio e sostegno, si rivolgono a loro come a delle persone vive e reali e chiamano san Nicola e san Giovanni Battista loro voevody, vale a dire loro capi guerrieri.

960x540

La situazione dei cosacchi divenne particolarmente difficile quando i turchi modificarono la loro tattica di assedio e, sfruttando la propria superiorità numerica, cominciarono ad avvicendare le truppe attaccando giorno e notte, senza un attimo di tregua. A causa del loro numero ridotto, i cosacchi non potevano darsi il cambio nel corso di questi assalti e non ne potevano più dalla stanchezza: «E questo loro stratagemma così perfido e scellerato, la mancanza di riposo, le nostre gravi ferite, la fame e la sete feroci e l’odore infetto dei cadaveri ci sfinivano e ci prostravano con malattie spaventose… Non ci lasciavano riposare neanche un’ora… Disperavamo ormai della nostra vita nella città di Azov e non ci aspettavamo nessun soccorso dagli uomini, sperando solo in noi stessi e nell’aiuto dell’Altissimo. Accorriamo, poveri infelici, verso il nostro unico conforto, l’immagine del Battista e davanti al santo versiamo lacrime amare: “Signore santo, nostro consolatore, grazie alla tua santa presenza abbiamo distrutto questo nido di serpi e preso la città di Azov. Abbiamo sterminato in essa tutti i carnefici dei cristiani, tutti gli idolatri. Abbiamo purificato la tua santa dimora e quella di Nicola, e adornato le vostre icone miracolose con le nostre mani indegne e peccatrici. Non abbiamo smesso di cantare un solo giorno davanti alle vostre immagini, in che modo vi abbiamo dunque offeso, che volete cadere di nuovo nelle mani degli infedeli? Sperando solo in voi, santi protettori, abbiamo deciso di resistere all’assedio con tutti i nostri compagni. E ora ci attende la morte per mano dei turchi, ormai lo vediamo bene. Ci estenuano con l’insonnia, giorno e notte, combattiamo senza sosta contro di loro. Sentiamo piegarsi le gambe e le nostre braccia, a forza di combattere, intorpidite, non rispondono più, i nostri occhi estenuati non vedono più, abbiamo le pupille bruciate dal fuoco ininterrotto, la polvere da sparo ci mangia gli occhi, la nostra lingua non riesce più a muoversi per gridare contro i saraceni, è tale la nostra debolezza che non riusciamo più a tenere le armi in mano. Siamo ormai dei cadaveri viventi… Non rivedremo mai più la Santa Russia”». E con queste parole i cosacchi si caricano in spalla le icone del Battista e di san Nicola e si lanciano con esse all’attacco; e vincono grazie al loro aiuto. Anche nel senso che i due santi prendono direttamente parte alla battaglia battendosi come guerrieri. Durante l’azione, i cosacchi stessi non li vedono, ma i turchi li vedono e in seguito chiederanno ai cosacchi chi fossero quei prodi dalla bianca tunica. E i cosacchi risponderanno loro con fierezza: “Sono i nostri condottieri!” I cosacchi possono anche valutare l’efficacia dell’aiuto celeste che hanno ricevuto dallo stato dei cadaveri nemici. I corpi sono stati tagliati in due con una forza che non è di mano umana. Alla fine i cosacchi vittoriosi sui turchi chiedono allo zar Michail Fëdorovic di voler accettare dalle loro mani la città di Azov come suo dominio  «per amore delle sante immagini del Battista e di Nicola poiché piacque loro, ai nostri santi, di volersi qui stabilire».

Le icone formulano quindi esse stesse il desiderio di restare e per questa ragione è opportuno che Azov resti in mano agli ortodossi. Quanto ai cosacchi, tutti feriti e mutilati dal primo all’ultimo, essi chiedono che sia loro consentito di ricevere la tonsura monacale e di rinchiudersi nel monastero di san Giovanni Battista: «E se lo zar non avrà pietà di noi, suoi servi lontani, e non vorrà ordinare di accettare dalle nostre mani la città di Azov, ci toccherà pur abbandonarla, piangendo calde lacrime! Prenderemo, peccatori quali siamo, l’icona del Battista e andremo con lui, il santo protettore, lì dove ci verrà comandato di andare. Tonsureremo il nostro ataman [capo] davanti alla sua immagine e sarà il nostro priore, tonsureremo il nostro esaul [capitano] e sarà il nostro superiore. E noi, miseri e malandati come siamo, non abbandoneremo l’immagine del Battista, moriremo accanto ad essa, tutti fino all’ultimo. Sia gloria al monastero del Battista nei secoli dei secoli». Come abbiamo visto, le icone accompagnano i cosacchi dall’inizio alla fine. Per questo, a quei guerrieri che in Russia venivano addirittura considerati dei briganti riesce così semplice e naturale trasformarsi in monaci ed eremiti. Perché anche prima, quand’erano dei ladri, vicino alle loro icone si sentivano un’anima di eremita.
Ma lo zar non accettò il loro dono e ordinò di restituire Azov ai turchi. La narrazione termina con un riassunto molto breve e asciutto che, dopo i tanti sforzi e le sofferenze dei cosacchi, ha un suono davvero drammatico: «E nell’anno di grazia 1642, su richiesta del sultano turco Ibrahim, e avendone ricevuto l’ambasceria, lo zar e gran principe Michail Fëdorovic dispose di concedere al sultano quanto richiesto e ordinò agli atamani e ai cosacchi del Don di abbandonare la città di Azov». La storia dell’assedio di Azov di solito viene classificata dagli specialisti nella categoria dei racconti epici. Ma che cosa troviamo al centro di questa cronaca guerriera, così lontana dalla vita ecclesiale? Le icone. Questa storia di epici assedi e imprese guerriere è anche il racconto, non meno avvincente e potente, della venerazione popolare delle icone in Russia.
(da Andrej Siniavskij: “Le icone” – 1. FINE)