PADRE IVAN RUPNIK: “L’ARTE SACRA DEVE RISCOPRIRE LA BELLEZZA”

Riproponiamo dall’”Osservatore Romano”, il quotidiano della Santa Sede, brani dell’intervento di Marko Ivan Rupnik, direttore del Centro Aletti, scritto in occasione del convegno sul progetto pastorale dell’Evangelii gaudium organizzato dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione conclusosi il 20 settembre 2014 in Vaticano.

La bellezza è la vita stessa della Chiesa. Ed espressione di questa vita a diversi livelli è la creazione della bellezza. Nell’arte, tale bellezza rappresenta lo stesso senso e la stessa perfezione che in qualsiasi altro ambito della vita. Le grandi epoche d’arte dei cristiani testimoniano che si tratta di un’arte essenziale e capace della rivelazione della presenza del mistero. La perfezione di tale arte consiste nel presentare questo mondo – come anche la figura umana – nei suoi tratti essenziali, per rendere visibile l’atteggiamento della persona nel suo compimento.
La persona si compie nella relazione con Dio e con gli altri. Perciò i gesti sono puliti, il volto essenziale e il corpo è espressione di questa relazionalità, in modo che tutto esprima lo spazio per l’intervento di Dio, la sua discesa e manifestazione nella persona. L’uomo nella sua fragilità, imperfezione e mortalità di peccatore si apre con l’invocazione a Dio che risponde con la sua venuta, agendo nella persona per salvarla. La fragilità dell’uomo completato dall’azione di Dio – queste due realtà unite esprimono la perfezione dell’arte delle grandi epoche: il romanico, il primo bizantino, e così via. E questa perfezione, questa bellezza, racchiude il senso di tutte le attività dell’uomo: lavoro, famiglia, politica, conoscenza, tutto ciò che è umano si compie come perfezione nella sua divinoumanità.
Ciò che è dunque la bellezza nell’arte lo è in ogni aspetto della vita dell’uomo, proprio perché la bellezza intesa così esprime quella comunione alla vita divina che è la santità della Chiesa e che i martiri hanno testimoniato con il sangue.
Credo anzitutto che vada riscoperta una vera ecclesiologia comunionale, il che significa riprendere seriamente tutta la teologia, la liturgia, la spiritualità e la pastorale a partire della comunione. Non possiamo avere una ecclesiologia di comunione se insistiamo su una teologia scientifica concettuale, espressione dell’individuo, dove la sostanza delle cose diventa il contenuto ultimo della verità senza che la comunione sia più costitutiva dell’essere (come è nel Dio della fede cristiana, il Dio trinitario), per cui la conoscenza diventa un’adaequatio tra la res e un intellectus posti uno di fronte all’altro. Se le nostre comunità cristiane non esprimeranno la bellezza della vita battesimale, se non diventeranno teofania attraverso la nostra stessa umanità, non susciteremo il desiderio per Dio e per la vita nello Spirito Santo.
Perché ci siano queste comunità, bisogna far sì che i nostri seminaristi e le nostre giovani religiose e religiosi siano formati partecipando e maturando nell’arte della comunione, nell’arte della partecipazione alla vita del Dio trino che trasforma l’individuo in «ipostasi ecclesiale», come si esprimerebbe Zizioulas. Se i seminari e gli altri luoghi formativi non diverranno luoghi di ecclesialità, luoghi di esperienza dell’amore pasquale che solo genera alla comunione fraterna, non giova a nulla tanta enfasi sulla preparazione culturale e intellettuale, perché le persone che usciranno da tali luoghi non saranno in grado di far innamorare di Dio, mentre la forza della bellezza consiste non nella dimostrazione, ma nella rivelazione che affascina e attira, che “contagia”.
La bellezza nell’arte, come affermava Giovanni Paolo II, è via della conoscenza, perché è percezione unita della totalità e della cattolicità della vita. Non va dimenticato che in oriente, fino a oggi, i grandi temi teologici vengono sviluppati non solo concettualmente, ma anche artisticamente nell’arte figurativa e nella poesia. Il nostro itinerario di studio si è rivelato assolutamente insufficiente per la trasmissione della fede, perché soffre del dualismo tra una conoscenza concettuale, che colloca la sua verità dentro agli schemi del linguaggio e pone tutto il suo sforzo nel voler costruire una teologia oggettiva e scientifica, e la prassi, cioè la concretezza della vita. Mentre l’arte non può per se stessa essere separata dalla vita. Dunque nell’itinerario formativo va certamente contemplata l’arte.
Non si tratta semplicemente di inserire la storia dell’arte nei curricula, ma di fare una lettura teologico-spirituale dell’arte. Per questo ci vogliono persone preparate, che non verniciano semplicemente ciò che hanno imparato nella facoltà di storia dell’arte con qualche impalcatura religiosa. Si tratta di persone che hanno un discernimento sulla storia dell’arte, capaci di aiutare a scoprire il valore dell’arte popolare o di un’arte grande come l’arte classica, sempre indicando le categorie della bellezza che sta a monte di un’epoca o di un’altra, di un popolo o di un altro, in modo che le persone comincino a essere iniziate alla distinzione necessaria tra un’arte che suscita ammirazione (l’arte classica), un’arte che dice qualcosa sulla fede e sui suoi contenuti (rinascimento e barocco) e infine un’arte che suscita l’unione con Dio, la preghiera, una vita secondo Cristo e nell’umanità di Cristo (l’arte liturgica). Un’arte quindi che è autenticamente liturgica, perché continua il dinamismo trasfigurante del sacramento che la liturgia celebra e pertanto è testimonianza della Chiesa, in maniera che le pareti dell’edificio ecclesiale lavorate secondo una tale arte siano l’autoritratto della Chiesa.
L’arte liturgica che si manifesta sulle pareti dell’edificio sacro fa vedere la trasfigurazione che i sacramenti e la liturgia attuano nel mondo e nella storia. Perciò i cristiani hanno considerato la bellezza come espressione della santità, mentre nell’epoca moderna la secolarizzazione è avvenuta anche perché la bellezza è stata considerata non come una dimensione indispensabile della santità e della sacralità, ma come una dimensione della ricchezza economica e dei sentimenti estetici del soggetto.
Se mettessimo in atto piccoli passi di cambiamento nelle nostre strutture formative, certamente non avremmo spazi liturgici come quelli attuali, espressione non solo di una grave secolarizzazione, ma anche di una tragica superficialità del clero, vittima di uno spirito postmoderno soggettivista, dove ciascuno fa come gli pare. Questo aspetto rende particolarmente preoccupante la situazione nelle terre delle giovani Chiese dove, negli ultimi decenni, lo spazio liturgico sconfessa praticamente ciò che il missionario vuole annunciare. Le nostre chiese non sono lo spazio di eventi liturgici che scandiscono il ritmo della vita e disegnano le assi portanti di un’antropologia cristiana. Ad esempio, difficilmente vi troviamo marcati i passaggi necessari dal battesimo all’eucaristia, dalla purificazione alla comunione.
La bellezza si crea quando la materia del mondo accoglie la forza, l’energia, la luce della comunione. Quando una persona vuole esprimere l’amore che sente per un altro, l’amicizia che lo lega a un altro e prende una realtà del mondo per farne dono a quella persona, la materia si trasfigura. Questa azione, che di per sé è un’azione artistica sulla materia del mondo, partecipa dell’azione di Dio sulla materia del mondo nel sacramento. Lo sfondo sul quale va capita la creazione artistica è pertanto l’eucaristia, dove la materia del mondo, tramite il lavoro dell’uomo e la discesa dello Spirito, diventa apertura per accogliere l’intervento di Cristo. Bisogna smettere di pensare all’artista in un modo romantico, rinascimentale, come qualcosa di straordinario. L’arte intesa in questo senso è finita.
Siamo all’inizio di un’epoca in cui di nuovo si intenderà l’arte come un servizio, come tante altre attività dell’uomo, un servizio che partecipa, con la sua missione, alla trasfigurazione del mondo, dell’uomo e della storia. Se vogliamo che tale mentalità si radichi in mezzo a noi, occorre essere preoccupati che nei nostri ambiti formativi ci sia davvero l’amore. Se non c’è l’amore, non c’è la forza della creatività, perché nessuno cambierà l’aspetto di un pugno di terra, povera materia del mondo, per sorprendere l’altro, per rallegrarlo, per dirgli la sua amicizia. Dobbiamo inoltre avere un linguaggio teologico profondamente simbolico nel senso patristico, e dunque liturgico, un linguaggio che chi fa passare per le sue mani la materia del mondo capisce molto bene. Il lavoro manuale è assai importante per una mentalità simbolica. Quando una cultura o una civiltà non riesce più a tenere insieme nel cuore l’intelletto e le mani, è all’inizio del suo declino.