ICONE: FINESTRE APERTE SULL’INVISIBILE

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Pubblichiamo il prezioso dono che, in occasione dell’attivazione del sito Internet ufficiale “I sentieri dell’icona”, abbiamo ricevuto da don Gianluca Busi, iconografo di fama internazionale, sacerdote della diocesi di Bologna e componente della Commissione diocesana per l’arte sacra. Don Gianluca Busi, oltre a una feconda attività di “scrittura” delle icone – le sue opere sono presenti in chiese e comunità sparse in tutto il mondo – tiene corsi e conferenze in Italia e all’estero. Il presente contributo è tratto dal libro “Il segno di Giona”, pubblicato dalla Libreria Dehoniana di Bologna, di cui, nella sezione “I libri” di questo sito, è disponibile anche una breve recensione.

Quando guardiamo un’icona sentiamo una insolita familiarità. Probabilmente, anche se non lo sospetteremmo mai, è perché ci troviamo di fronte a qualcosa che avvertiamo come molto legata alla vita di tutti i giorni. Probabilmente l’oggetto più vicino al quotidiano che tutti ci ritroviamo in casa: la televisione.
L’icona infatti si presenta come uno schermo. Ci sono alcuni particolari che ci aiutano a capire questo. Il bordo rosso che ne delimita il perimetro esterno ha una funzione precisa e delimita la realtà esterna (visibile con i nostri occhi) dalla realtà interna (altrimenti invisibile). In senso più preciso delimita il “profano” che si trova al di fuori, dal “sacro” che è rappresentato nell’immagine stessa. Lo sbalzo interno alla tavola delimita invece il bordo esterno da una zona più interna chiamata anche “finestra” o “culla”. Questo è lo “schermo” vero e proprio dove ci è data la possibilità di vedere un’immagine che non appartiene alla nostra realtà visibile.
Se volessimo forzare questo paragone icona-televisione potremmo dire che quando vediamo un personaggio sullo schermo, diventa fruibile davanti ai nostri occhi una realtà distante ed irraggiungibile.
La televisione è uno strumento adeguato per recepire e rendere visibile qualcosa che pur esistente non è realmente né presente né visibile, lì dove siamo noi. Dell’icona si potrebbero dire le stesse cose. Guardandola appare, come per miracolo e davanti ai nostri occhi, un’immagine soprannaturale che diventa visibile grazie ad uno strumento adeguato: l’icona stessa, appunto.

Trovarsi davanti ad un’icona significa, quindi, guardare attraverso una “finestra” che ha una vista sull’invisibile. Se ci lasciamo condurre da un’osservazione attenta e pacificata, molti particolari ci balzeranno davanti agli occhi. Normalmente il primo aspetto che attira l’attenzione è il colore del fondo. Nessuna traccia di un cielo azzurro, al suo posto una profusione di oro zecchino. L’oro è il materiale più prezioso che esista in natura ed ha una rifrazione perfetta della luce. Per questo gli iconografi lo utilizzarono per significare la luce increata, che è la luce di Dio.
Una successiva osservazione ci permetterà di avvertire che figure ed edifici non producono nessuna ombra. Questo avviene perché quanto è rappresentato nell’icona appartiene ad una realtà “trasfigurata”, che non riceve luce dall’esterno poiché contiene in se stessa la sorgente della luce.
Questo concetto particolare trova un’eco in una citazione dell’Apocalisse: “Gli eletti vedranno la faccia del Signore e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,4-5). Dal punto di vista pittorico questo è evidenziato attraverso particolari molto singolari. Dalle vesti trasparenti escono raggi di luce sempre più intensi fino ai tratti vivi di colore bianco puro, nei punti dove la pelle tocca le parti di tessuto a maggior contatto con il corpo di luce.
Questo fenomeno raggiunge la massima intensità nei volti. Il colore della pelle molto scura e i colpi di luce molto intensi, rendono l’idea dell’abbaglio che i nostri occhi hanno davanti ad una sorgente luminosa troppo intensa; se guardassimo direttamente il sole avremmo una esperienza analoga: il sole appare nero e tutto attorno si scorge con fatica un alone luminosissimo. Una tradizione diffusa da tempo immemorabile consigliava di immaginare i volti delle icone come fossero costruiti su di uno scheletro trasparente con una candela accesa all’interno. La pelle si illumina, ed in corrispondenza dei punti di massima aderenza allo scheletro (come gli zigomi) esplode in una forte irradiazione della luce. Questo esempio, veramente suggestivo, può aiutare a tradurre attraverso un’immagine questo concetto dell’irradiazione, perché spesso non è di comprensione immediata.

Le figure iconografiche non hanno alcuni aspetti tipici della pittura cosiddetta “naturalistica” che costruisce e ricerca il volume attraverso il chiaroscuro e la prospettiva. Questo espediente viene introdotto per accentuare la percezione dell’alterità, poiché i corpi celesti non seguono la logica rappresentativa naturale. La profondità e il volume vengono raggiunti qui attraverso la sovrapposizione di colori molto leggeri e trasparenti e il movimento verso l’esterno viene sottolineato con lo spostamento dell’asse della figura verso sinistra nel “profilo avanzante”. Un altro particolare da considerare è quello della “prospettiva rovesciata”, un aspetto ancora molto discusso fra gli interpreti delle icone antiche. Sappiamo dalla Scrittura che Dio disse a Mosè che Egli non può essere mai visto di fronte, perché “vedere Dio di fronte significherebbe morire”, quindi Egli si fa vedere “di spalle”. Probabilmente gli iconografi cercarono di fare delle raffigurazioni con la prospettiva inversa, dove “il punto di fuga” non è dietro le figure ma davanti. Questo significa che noi abbiamo una visione di qualcosa che avremmo potuto vedere solo di spalle.

L’iscrizione: tutte le icone hanno una scritta che designa o il titolo o il nome di un personaggio. Normalmente sono scritte in slavo antico o in greco. Probabilmente sono funzionali alla collocazione. Nelle chiese ortodosse ci sono centinaia di icone. La maggior parte dei fedeli riconosceva le rappresentazioni attraverso una fruizione continua delle icone e l’iscrizione, voluta dalla Chiesa, era essenzialmente un “sigillo” di canonicità della raffigurazione stessa.
Le icone si dipingono con una emulsione formata da tuorlo d’uovo, vino ed essenza di lavanda e potrebbero essere letti come simboli rispettivamente: della risurrezione di Gesù (anticamente infatti la risurrezione veniva paragonata al pulcino che spezza il guscio ed esce dall’uovo); del sacrificio, dove Gesù offre il vino dicendo che è il suo sangue; del profumo, come ricordo dell’unzione (con un balsamo da 300 denari) di Maria Maddalena a Betania (segno della dedizione completa dell’uomo al mistero di Dio). I colori sono possibilmente pigmenti naturali, in genere terre e pietre preziose tritate: questo vuole sottolineare che tutto ciò che c’è di più prezioso in natura viene messo a servizio di tali rappresentazioni “trasfigurate” della realtà. A pittura ultimata il dipinto viene ricoperto da olio di lino cotto bollente con sali di cobalto che conferisce, una volta essiccato, quella particolare patina “vetrosa” e profumata che caratterizza il dipinto iconografico.

(da: don Gianluca Busi, Il segno di Giona, Libreria Dehoniana, Bologna 2012, 2° ed. pagg. 15-18)

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