CRISTIANI IN TERRA SANTA: IL SIGNIFICATO DI UNA PRESENZA MILLENARIA

Nell’imminenza del viaggio apostolico di Papa Francesco in Terra Santa (24-26 maggio 2014), a 50 anni dal primo, storico pellegrinaggio di Paolo VI, proponiamo agli amici de “I sentieri dell’icona” un articolo pubblicato nel 2007 dal periodico “Tracce” nel quale Javier Velasco Yeregui, direttore dell’Istituto spagnolo biblico archeologico di Gerusalemme “Casa di Santiago”, ripercorre il significato della cura dei cristiani per i luoghi nei quali visse Gesù dalla predicazione di San Paolo fino ai giorni nostri.

La cura dei cristiani verso la comunità cristiana di Terra Santa è antica quanto la stessa predicazione apostolica. Intorno agli anni cinquanta della nostra era, Paolo si impegnò davanti a Giacomo, Cefa e Giovanni, le massime autorità della Chiesa, a venire in aiuto delle necessità di Gerusalemme, e a questo scopo organizzò collette tra i Galati (1 Cor 16,1), a Corinto (1 Cor 16,1-4), in Macedonia (2 Cor 8,1-5) e nella provincia romana d’Asia (Atti 20,4-5). Paolo chiamerà questo gesto delle Chiese che si erano convertite dal paganesimo nei confronti della chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme con i termini «grazia e comunione», kharis kai koinonía (2 Cor 8,4), perché esprimeva una unità tanto nello spazio (communio) quanto nel tempo (traditio) tra la Chiesa dei gentili e quella «nella quale si sono compiute le Scritture» (Atti 13,27). Venti secoli più tardi, la Chiesa di Gerusalemme continua a essere una particolare icona della Chiesa, una imago Ecclesiae che sempre si presenta attraverso i segni dell’umiltà e della debolezza. Da qui trae la sua forza. Oltre a essere la realtà che custodisce i luoghi della salvezza, essa rappresenta come nessun’altra la ricchezza – e insieme le contraddizioni – della storia cristiana. I teologi orientali amano contemplare la Chiesa indivisa dei primi secoli come un riflesso della stessa vita di Dio: Roma o la latinità, la greca Bisanzio e l’Oriente cristiano di cultura aramaica rappresentano il sigillo stesso del Dio trinitario che si attua nella storia della sua Chiesa. Che oggi questa unità nella diversità sia venuta meno è un problema nostro. Nella loro ricchezza e nel loro confronto, queste tre forme dell’unica Chiesa hanno plasmato il cristianesimo della Terra Santa sin dai primi secoli. L’eredità di una storia ricchissima, vissuta in un presente difficile, diventa così profezia per il futuro. Queste sono le chiavi per comprendere l’identità e la missione delle chiese e delle comunità ecclesiali in Terra Santa.
È difficile ricostruire con chiarezza la struttura della Chiesa nella Palestina romana dei primi tre secoli. Sappiamo dell’esistenza di comunità giudeo-cristiane e di comunità convertitesi dal paganesimo. È il tempo dei martiri, di eruditi come Origene, e di campioni della difesa della logica cristiana di fronte al sistema religioso e filosofico imperiale, come san Giustino, originario della oggi così tormentata Nablus. Con la legalizzazione della nuova religione, nel IV secolo, si apre un’epoca di splendore per Gerusalemme, elevata al rango di patriarcato: i suoi fedeli rappresentavano la Chiesa universale. In quei secoli vedremo san Gerolamo operare per far giungere al mondo latino la Bibbia scritta in ebraico e greco. Accanto a lui, i monaci giunti da Roma a Betlemme o al Monte degli Ulivi. Nella Basilica che custodiva il Calvario e il Sepolcro di Cristo si udrà san Cirillo predicare in greco la sua catechesi, tradotta simultaneamente a una parte del popolo in lingua siriaca o aramaica, secondo la testimonianza della pellegrina spagnola Egeria (382 circa). I monaci orientali nel deserto di Giuda, le cui più celebri lavre o cenobi sono giunte sino ai nostri giorni, svolsero una vasta opera di evangelizzazione con le tribù arabe del deserto. È il caso del clan beduino Aspebet, che abbracciò la fede per opera del monaco Eutimio nei primi anni del V secolo, e il cui vescovo parteciperà al Concilio di Efeso, nel 431, con il titolo di “vescovo delle tende”. In occasione della grave frattura ecclesiale del V secolo, che trasse fuori dell’unità alcune chiese d’Oriente, Gerusalemme rimase legata a Roma e a Costantinopoli nell’ortodossia. I fedeli delle città della Palestina rimasero al seguito della retta fede professata nelle città imperiali: erano i melchiti o uomini dell’Imperatore (malek, in aramaico). Fra la popolazione rurale invece prevalse la fede di quelle che furono chiamate più tardi le antiche chiese d’Oriente.

L’islam e le crociate
L’islam giunse in Terra Santa quando il califfo Omar entrò a Gerusalemme nel febbraio del 638. Fu una conquista pacifica, ma inesorabile. Con il passare del tempo, una parte dei cristiani indigeni (siriani, arabi e altri) passò alla religione di Maometto, mentre altri conservarono la fede dei loro progenitori con i suoi riti, pur integrandosi nella nuova cultura arabizzata. Questa integrazione fu tanto forte che gli attuali cristiani di Terra Santa (e di tutto il Medio Oriente) si offenderebbero se qualcuno osasse dire che non appartengono alla cultura araba per lingua, costumi e mentalità. Con tutto questo, ciascuna forma ecclesiale continuò a caratterizzare l’identità della sempre più minoritaria comunità cristiana. In questo senso i vescovi cattolici di Terra Santa hanno recentemente dichiarato: «In Oriente, noi teniamo molto alla nostra liturgia e alle nostre tradizioni. È la liturgia che ha molto contributo a conservare la fede cristiana nei nostri paesi lungo la storia. Il rito è come una carta d’identità, e non solo un modo tra altri di pregare».
La parentesi eccezionale delle crociate (secoli XI-XIII) rappresentò, almeno inizialmente, il tentativo fallito di imporre la cristianità latina nelle terre d’Oriente, ma proprio dal suo fallimento nascerà la proposta alternativa di san Francesco. Si trattava di una forma nuova di presenza, molto diversa da quella dei cavalieri franchi. I frati della corda, che erano rimasti nell’isola di Cipro ad aspettare il momento in cui poter ritornare a prendersi cura dei luoghi santi e dei loro fedeli cristiani, portarono una nuova forma di presenza nel XIV secolo.

I cristiani oggi
Senza la pazienza, l’umiltà, il martirio di tanti figli del poverello di Assisi, oggi sarebbe difficile per i cattolici recarsi in pellegrinaggio nella terra del quinto vangelo. Grazie al loro lavoro pastorale, ogni santuario è sede di una comunità cattolica araba di rito latino. Quando nel XIX secolo giungeranno le missioni anglicana, protestante e ortodossa dalla Russia, la Chiesa cattolica restaurerà la diocesi latina nella forma del patriarcato di Gerusalemme, che oggi conta circa 30.000 fedeli in Israele, nei territori della Cisgiordania e di Gaza, in Giordania e a Cipro. Accanto a essi, i fedeli cattolici delle chiese orientali unite a Roma, come i greco-cattolici (45.000 fedeli), i maroniti di origine settentrionale o libanesi (4.000 fedeli), e siriani, armeni, copti e caldei (alcune centinaia o decine). Il quadro della famiglia cattolica non sarebbe completo senza ricordare la comunità di lingua ebraica (alcune centinaia) che, all’interno del mondo culturale e religioso ebraico, testimonia molte volte nel silenzio la pienezza delle promesse fatte ai padri di Israele. Come nel IV secolo, oggi la Terra Santa è casa di tutti i Cristiani, i quali preferiscono, nonostante tutto, denominarsi con il solo appellativo di «cristiani». In questo modo si rendono più vicini ai membri delle altre chiese o comunità ecclesiali con i quali non vivono la piena comunione (ortodossi, chiese d’Oriente o protestanti). Sono in totale un 2% della popolazione, stretti fra islam e giudaismo. Ogni cambiamento storico ha lasciato loro una traccia. La più recente e sanguinosa è il conflitto arabo-israeliano, di cui condividono sofferenze e minacce, essendo arabi senza essere musulmani, israeliani senza essere ebrei. Proprio per questo possono offrire, di fronte alla costante tentazione dell’emigrazione, il portato di speranza e riconciliazione che si trova al cuore del Vangelo. Mescolata in questa storia si può scorgere la valenza profetica di questa Chiesa (non dimentichiamo che il significato più letterale del termine pro-fezia è quello di pro-vocazione). Per questo, accostarci a essa, anche se solo attraverso un pellegrinaggio, è “grazia e comunione”, come già ebbe a dire san Paolo.