NEL MANDYLION IL “SEGRETO” PER COMPRENDERE L’ICONA (1)

Holy Mandylion 45

Nel giugno del 2004, per il sito cultura cattolica.it, la studiosa Amelia Limata, della Scuola iconografica di Seriate, propose un excursus sulle origini e il significato dell’icona partendo da fondamenti noti, almeno agli appassionati, ma senza trascurare spunti di grande interesse soprattutto dal punto di vista divulgativo. Riproponiamo il testo, in più parti, a beneficio degli amici dei “I sentieri dell’icona”.

Che cos’è l’icona

La storia comincia a Edessa, a pochi giorni dalla passione e morte di Cristo. La città di Edessa, oggi Urfa in Turchia (al confine con la Siria), era la capitale di un regno su cui regnava il re Abgar V, soprannominato Ukama, o il Nero. Egli vi introdurrà il Cristianesimo con l’intervento di Taddeo, uno dei 70 discepoli di Cristo, lì inviato da Tommaso apostolo dopo la Pentecoste.
Il re era malato di lebbra e di gotta. Per guarire aveva provato vari rimedi, ma inutilmente. Venuto a sapere dei miracoli che un certo Cristo compiva a Gerusalemme e anche dell’ingratitudine dei Giudei nei suoi confronti, affidò ad un bravo ritrattista del luogo, un tale Anania, due incarichi: consegnare una lettera a Gesù, in cui gli chiedeva di guarirlo e lo invitava anche a stabilirsi nella città di Edessa, ed eseguire un suo ritratto il più possibile fedele.
Anania si reca a Gerusalemme, consegna la lettera a Gesù e poi mentre attende la risposta prova a ritrarlo, ma non ci riesce. È lo stesso Gesù che bagnandosi il volto e asciugandosi con un telo di lino vi imprime sopra i suoi lineamenti e fa consegnare il telo ad Anania insieme con una lettera di risposta: in questa lettera spiega al re che egli deve rimanere a Gerusalemme, lo chiama “beato” perché credeva in Lui e gli preannuncia la guarigione completa ad opera del discepolo Taddeo che sarebbe giunto da lui.
Abgar dopo aver avuto il ritratto e la lettera guarisce subito dai suoi mali, ad eccezione della lebbra sulla fronte, che sparirà con la venuta dell’apostolo Taddeo.
La lettera fu conservata negli archivi della città di Edessa (numerose sono le testimonianze della sua esistenza: Eusebio di Cesarea la cita nella sua Storia ecclesiastica, opera che tradotta in latino avrà grande diffusione in Occidente e determinerà anche la diffusione della lettera, nota fino al XVII secolo persino in Inghilterra).

Il Mandylion (in aramaico significa asciugamano), cioè il volto di Gesù impresso sul telo di lino, fu collocato in una nicchia della porta principale della città ed esposto alla venerazione dei cristiani, con la seguente scritta: “Cristo Dio, chi in te spera non si perderà”.
Quando col nipote di Abgar si generò un ritorno al paganesimo, nel 57 d. C., il vescovo della città per salvare l’acheròpita (=non dipinto da mano d’uomo) la fece murare di nascosto nella nicchia, nascondendola con una ceramica, e lì venne dimenticata; ritornerà alla luce più tardi, nel 525, durante una inondazione che fece crollare parte delle mura della città e spinse l’imperatore Giustiniano a lavori di sistemazione.
Questa leggenda, che è ricordata nella liturgia orientale (il 16 agosto cade la festa bizantina della traslazione del Mandylion da Edessa a Costantinopoli, le Chiese di origine sira venerano il re Abgar come santo, la Chiesa maronita fa memoria della lettera di Abgar e di Gesù il 18 agosto), ci indica come dobbiamo concepire l’icona ed il pittore di icone:
– l’icona è un mezzo attraverso cui l’uomo riceve aiuto, salvezza, sapienza; è come se fosse una “reliquia”;
– chi la dipinge, (meglio chi la “scrive”, perché l’icona è considerata “Vangelo in immagini”) diventa il tramite per questo passaggio di grazia.
(1-continua)

Nella foto: Santo Mandylion, tempera su tavola, XII secolo