LA TEOLOGIA DELL’ICONA NELL’INSEGNAMENTO DI OLIVIER CLÉMENT (3)

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Olivier Clément (1921-2009), cresciuto in una famiglia agnostica francese e convertitosi all’Ortodossia intorno all’età di trent’anni, dopo un lungo travaglio interiore, è stato uno dei massimi pensatori e teologi occidentali impegnati nella testimonianza e nella divulgazione, anche attraverso scritti destinati al grande pubblico, dell’eccezionale tradizione spirituale dell’Oriente cristiano. Oltre che protagonista di primo piano dei dibattiti teologici e dottrinali del Novecento, per la sua grande apertura intellettuale e la sua disponibilità al dialogo, è stato interlocutore privilegiato di personalità di spicco come il patriarca di Costantinopoli Atenagora e Papa Giovanni Paolo II. Fra i suoi testi figura anche una “Piccola introduzione alla teologia dell’icona” già pubblicata in Italia dal sito www.ansdt.it della Abbazia Nostra Signora della Trinità di Monfasso (PC) che volentieri riproproniamo, in più parti, agli amici de “I sentieri dell’icona”. La prima e la seconda (nella quale erano inclusi i riferimenti che nelle altre due parti si trovano a pie’ pagina) sono consultabili nella sezione “i documenti” di questo sito.

PICCOLA INTRODUZIONE ALLA TEOLOGIA DELL’ICONA (3)
di Olivier Clément

I teologi dell’icona hanno chiaramente distinto l’icona dall’idolo, sottolineando che l’icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: “immagine artificiale”, l’icona non è in niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene all’ordine magico del possesso, ma all’ordine propriamente cristiano della comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la maceria riceve una forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro interpersonale. Il prototipo, che è divino-umano (Cristo) oppure l’umano deificato (il santo) sfugge ad ogni opacità, separazione. Al contrario si rende presente e accogliente nell’immagine che rappresenta la sua “somiglianza”. La presenza iconica è dunque una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell’ipostasi»[14], cioè della persona allo stesso tempo unica e in comunione. L’icona permette l’incontro degli sguardi (da cui l’importanza della pupilla dell’occhio, [Strana coincidenza: Guillaume Apollinaire nella poesia “Zone” all’inizio della Raccolta Alcools scrive: «Pupilla, Cristo dell’occhio»] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che guardare, sono io ad essere guardato. Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia resurrezione e l’immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all’amore.
L’iscrizione del Nome sull’icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la persona rappresentata. Così san Teodoro Studita può affermare che l’icona di Cristo è Cristo, senza la minima confusione magica: «l’immagine di Cristo secondo la relazione»[15].
L’icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni “caratteri” concreti che distinguono tale individuo «dagli altri individui della stessa specie»[16]. La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è «composta di alcune proprietà»[17]. Il paradosso tipico della fede cristiana è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l’umanità; eppure la sua umanità d’altra parte sussiste, si lascia vedere «in un individuo preciso» (atomos)[18]. Ecco perché, nelle icone, da una parte il bambino Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall’altra l’ipostasi del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d’uomo. L’arte dell’icona unisce realismo e astrazione per suggerire, con san Giovanni, l’identità dell’umiliazione e dell’elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.
Nell’essenziale, questa teologia dell’icona ha trovato la sua sintesi nella definizione (l’horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il “modello rappresentato” deve accordarsi con il Vangelo e l’icona per eccellenza, quella di Cristo, «serve a confermare l’Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio». Così Scrittura e icona «rimandano l’una all’altra». Le immagini rinviano significativamente al mistero della Croce – sempre, contro l’idolo, questa identità della gloria e della Croce – e di tutto l’insieme del culto di cui l’icona, come abbiamo detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l’icona – il bacio, l’inchino, la candela e l’incenso – non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al Vangelo. Per due volte l’horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che «coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e che «l’onore reso all’icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina davanti all’icona lo fa davanti all’ipostasi (la persona) di colui che vi è rappresentato».
Attraverso la crisi iconoclasta, l’arte dell’icona si è dunque precisata e purificata per suggerire, nell’uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, quel Regno che è in noi e in mezzo a noi, dice Gesù. La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande.
Questa luce è l’essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un’“energia” tramite la quale Dio si “estasia” nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del Getsemani e del Golgota. Si conosce la leggenda della “scelta della fede” da parte di Vladimir, gran principe di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più – dicevano – se erano in cielo o sulla terra. Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è prova dell’esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma ontologica, perché nella teologia orientale l’essere ha la sua fonte nella comunione, L’iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà. Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire l’intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l’incontro con colui o colei che sta per rappresentare sull’icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali, non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.
(3-continua)

[14] Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3, 1.
[15] Antirrheticus I, 11.
[16] Antirrheticus III, 1, 34.
[17] Antirrheticus III 1, 17.
[18] Antirrheticus II, 18.