PADRE FLORENSKIJ, IL “LEONARDO” RUSSO VITTIMA DEL TERRORE (1)

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Pavel Florenskij, martire della Chiesa Ortodossa, è stato chiamato “il Leonardo da Vinci russo”. A lui, insieme ad altri filosofi e teologi a lui contemporanei, si deve la decisiva riscoperta dell’icona all’inizio del Novecento grazie al contributo determinante da lui offerto a quella che è poi stata definita, ed oggi è comunemente conosciuta come, la “teologia dell’icona”. Pur essendo caduto sotto la mano del boia a soli 55 anni, l’8 dicembre 1937, l’anno del “grande terrore”, Florenskij (nella foto sopra) ha lasciato opere capitali come “La colonna e il fondamento della verità” e “Le porte regali”, oltre a un corposo gruppo di diari indirizzati ai familiari. Ma chi era questo intellettuale eclettico, dedito alla letteratura e alla matematica, alla filosofia della scienza e alla religione? Pubblichiamo la prima di tre parti di un lungo articolo che, nel 1987, a padre Florenskij dedicarono, sulla rivista “The Orthodox word” – “La parola ortodossa” – l’abate Herman e padre Damascene, autori di una documentata biografia di padre Florenskij.

Maestro delle più svariate discipline, padre Pavel Florenskij fu allo stesso tempo un genio matematico che divenne famoso nei campi dell’astronomia, della fisica e dell’ingegneria elettrica; un poeta di talento, musicista e storico dell’arte; un linguista ed etimologo versato in greco, latino, nella maggior parte delle lingue europee e in quelle del Caucaso, dell’Iran e dell’India; così come un originale pensatore religioso e metafisico. Era una personalità talmente rara da non essere a tutt’oggi pienamente compresa.

1. I PRIMI ANNI DI FLORENSKIJ
Padre Pavel Florenskij nacque da una famiglia aristocratica in Transcaucasia il 9 gennaio 1882. Suo padre era un ingegnere di origine russa e sua madre era armena. Anche se alcuni degli antenati di suo padre erano stati sacerdoti, il giovane Pavel non fu cresciuto in un’atmosfera religiosa e non venne mai portato in chiesa. Le sue prime aspirazioni spirituali, pertanto, non furono il risultato di influenze esterne, ma di un risveglio interiore a una realtà più elevata. Attraverso un’esperienza della natura Pavel iniziò a provare meraviglia per l’insondabile sapienza di Dio, la bontà intrinseca della creazione e la vastità dell’eternità.
Pavel completò la sua istruzione secondaria in Georgia, dove divennero evidenti le sue notevoli abilità in matematica. Dopo la laurea, subì una crisi spirituale che diede direzione alle sue aspirazioni giovanili. In questo periodo, scrisse in seguito, che “le limitazioni della conoscenza fisica mi furono rivelate”. Mentre fino ad allora aveva considerato la scienza come la chiave di tutti i segreti dell’esistenza, ora comprese l’esistenza di un livello di esistenza che essa non poteva arrivare a raggiungere. Abbastanza curiosamente, fu soltanto dopo essere giunto a questa conclusione che si sentì libero di usare la scienza in modo pratico, entro l’ordine inferiore – o materiale – dell’esistenza. “I miei sforzi verso l’applicazione tecnica della fisica,” scrisse in seguito, “mi furono instillati da mio padre, ma si formarono solo quando la scienza cessò di essere [per me] un oggetto di fede. E in seguito, da quella stessa crisi, venne il mio interesse per la religione..” [1].
Florenskij si iscrisse al Dipartimento di Fisica e Matematica dell’Università di Mosca, laureandosi nel 1904. In quest’epoca la sua conversione alla Fede dei suoi padri – il cristianesimo ortodosso – era ormai completa e costituì il più importante elemento della sua vita.
Come scrisse uno dei suoi contemporanei, tutto il carattere di Florenskij divenne contrassegnato da “una rivolta interiore contro il mondo”. Non poteva non detestare le norme prescritte che fossero determinate dal modo in cui il mondo pensa. Le considerava una maschera che rende chi la porta accettabile a tutti, trascinandolo in un’esistenza confortevole a spese della vendita delle sue più alte aspirazioni alla Verità. La sua ribellione alla “standardizzazione” e ai comportamenti prescritti non veniva tanto dalla sua volontà, quanto piuttosto dalla sua stessa natura, segnata fin dalla sua infanzia da un marchio di unicità.

2. L’ANZIANO ISIDORO
Nel 1904, Florenskij si iscrisse all’Accademia Teologica di Mosca, che a quel tempo era diretta da un grande gerarca che avrebbe in seguito condiviso il fato di martirio di Florenskij: l’Arcivescovo Teodoro Pozdeyev.
Mentre studiava all’Accademia, Florenskij venne in contatto con un uomo che avrebbe profondamente influenzato il suo atteggiamento verso il cristianesimo e la vita spirituale. Era l’anziano Isidoro, che allora viveva in una piccola capanna accanto alla Skiti del Getsemani, che era vicina all’Accademia. Molti dei monaci alla skiti consideravano Isidoro come un tipo eccentrico. La classe colta non prestava alcuna attenzione a persone come lui, che disprezzavano come mudzhik (contadini) illetterati. Erano soprattutto i mudzhik come Isidoro che apprezzavano che apprezzavano la semplicità delle sue parole e l’abbondanza dell’amore – la più alta delle virtù cristiane – che si rifletteva in ogni istante sul suo volto radioso. Florenskij, che amava più di tutto ciò che era genuino e sincero, vide Isidoro nello stesso modo in cui lo vedevano i paesani più semplici: ma come filosofo e metafisico era anche in grado di articolare le proprie impressioni e di trovarne la fonte. “L’ascetismo,” scrisse, “non produce tanto una personalità buona, quanto una personalità bella; la caratteristica particolare dei grandi santi non è tanto la bontà di cuore, che hanno anche gli uomini carnali e persino i grandi peccatori, ma la bellezza dello spirito, la bellezza abbagliante di una personalità radiosa e luminosa, che non riescono a ottenere gli uomini carnali appesantiti dal mondo” [2]. Si può ritenere che questo sia il modo in cui Florenskij considerava l’ascetico Padre Isidoro.
In Padre Isidoro, Florenskij vide anche l’incarnazione del suo ideale di monachesimo, un ideale caratterizzato da libertà di spirito, libertà di vivere secondo le leggi della vita spirituale, così tanto diverse dalle vie del mondo. Florenskij, che come abbiamo visto detestava tutte le forme di simulazione, sapeva bene che le figure di chiesa sono spesso molto più artificiali dei laici. Padre Isidoro, invece, era in ogni momento se stesso, in accordo con le antiche parole di Socrate: “È meglio essere piuttosto che sembrare”. Si rifiutava di essere governato da codici di comportamento mondani e li infrangeva con accattivante genialità. Assolutamente privo di paura, era allo stesso tempo dotato di profonda umiltà. Era dolce, affettuoso, flessibile e innocente, come un bambino, eppure poteva sopportare di tutto. Per Florenskij, Padre Isidoro – un umile e dimenticato vecchio monaco – era un gigante che dimorava su di un altro piano, un uomo veramente spirituale che vedeva le cose da una prospettiva spirituale e portava testimonianza della realtà dell’altro mondo.
Padre Isidoro morì nel 1908 e per passare ad altri ciò che aveva ricevuto da lui, Florenskij scrisse il classico spirituale, Sale della terra, […].

3. ASPIRAZIONI MONASTICHE
La predisposizione naturale del carattere di Florenskij era fortemente attratta dal monachesimo, ma il suo padre spirituale, Antonio, un vescovo a riposo, lo sconsigliò di intraprendere questo sentiero. Il Vescovo Antonio, un uomo pratico e un acuto osservatore della psicologia umana, notò in Florenskij una genialità che avrebbe potuto essere soggiogata e ridotta a un comune denominatore sotto il rigorismo della vita monastica comune. La natura indagatrice e analitica di Florenskij e la sua illimitata creatività erano le sue maggiori spinte ed erano anche più costrittive delle sue inclinazioni monastiche. Relegare questi impulsi in un monastero, percepiva il Vescovo Antonio, avrebbe un giorno causato problemi alla personalità di Florenskij e pertanto egli deviò consapevolmente le energie di Florenskij verso studi teologici e scientifici.
La gente parla del genio naturale come di un dono. Come per la bellezza naturale, la nostra salvezza non dipende da esso, ma piuttosto da che cosa ne facciamo. Florenskij usò il suo “dono” per la propria salvezza portandolo come una croce, poiché era il suo stesso genio a impedirgli di realizzare il suo caro desiderio di diventare un monaco. Rese impossibile per lui diventare “come tutti gli altri,” abbracciando l’oscurità personale che i monaci dovrebbero cercare. Ma che tortura era per lui! Il fatto era che egli voleva con tutto il suo cuore essere come quei semplici, umili monaci che non vengono notati dal mondo, non ottengono successo esteriore in alcunché, eppure piacciono a Dio per la bellezza delle loro vite quiete e per questo ereditano il Regno. Ma non poteva cambiare se stesso; era differente dalla gente comune. Le parole che un tempo egli scrisse riferendosi a Pushkin avrebbero potuto essere egualmente applicate a lui: “Il fato della grandezza porta sofferenza dal mondo esterno e sofferenza interiore che proviene da se stessi. Così era, così è e così sarà” [3].
Portando la croce di una rara genialità, la sofferenza e la tensione di Florenskij non facevano altro che nutrire e rafforzare i suoi poteri creativi. Fu obbligato a trovare la sua bramata libertà monastica al di fuori della reclusione di un monastero, senza il beneficio di aiuti monastici esteriori, seguendo un arduo sentiero che alla fine lo condusse alla libertà di morire per Cristo.

4. SOFFERENZA
Florenskij ottenne nel 1908 un posto alla Facoltà di Storia della Filosofia dell’Accademia Teologica di Mosca. Durante i suoi primi anni di insegnamento all’Accademia, cadde in un’acuta depressione. molti fattori vi contribuirono: la morte dell’Anziano Isidoro, il suo mancato ingresso in monastero e la noia di essere “intrappolato” in un ruolo accademico standardizzato, insieme a studiosi che avevano perso il contatto con la Verità mistica della vita di chiesa. La causa dei suoi problemi, egli scrisse, “è un desiderio di qualcosa di reale, di qualche tipo di contatto totale, una garanzia della vita della chiesa. Non trovo questo contatto da nessuna parte, solo carta, niente oro. Non dico che non vi sia oro nella chiesa, ma io non lo trovo mai. Se non credessi, sarebbe stato più facile. Ma è proprio questo il difficile: io credo che il contatto esiste e se non c’è contatto, allora significa che non c’è la Chiesa e non c’è cristianesimo. Mi ordinano di credere e io credo. Ma quella non è vita” [4].
Così, per Florenskij, non era sufficiente passare per le tappe della vita della chiesa, considerandosi ed essendo considerato una buona persona di chiesa, sperimentando la grazia della Chiesa solo in maniera vicaria, sapendo che altri la hanno sperimentata in verità e sapendo che tale grazia esiste oggettivamente. Florenskij aveva bisogno di conoscerla e di sperimentarla di persona. Come insegnante e scrittore, voleva che tutto quanto proveniva da lui derivasse dalla realtà della propria esperienza. La filosofia più elevata doveva essere umana, personale e vissuta e non solo astratta e teorica. Fu la sua perseveranza in questo, anche più del suo genio personale, che lo rese eminente tra i pensatori del suo tempo.
Indizi importanti sul carattere di Florenskij al tempo della sua crisi sono stati forniti da Padre Alexander Elchaninov, che registrò le loro conversazioni. All’apice della sua sofferenza interiore, Florenskij disse a Elchaninov: “non è difficile uccidere molti aspetti di me stesso, ma quale ne sarebbe il risultato? Avrei potuto uccidere in me tutto quanto ha a che fare con il sesso, ma allora la mia creatività scientifica sarebbe stata la prima a morire. Mi dici che questa è la strada da percorrere: che tutti gli asceti dovettero passare attraverso una simile morte. Lo so, ma non mi è permesso entrare in un monastero: mi ordinano di tenere lezioni. Com’è che da molti scritti – libri di testo e così via, soprattutto i testi del seminario – viene un odore di morte? Sembra che ci sia tutto: grande conoscenza e linguaggio dignitoso, pensieri; ma perché è impossibile leggerli? È perché sono scritti da ‘eunuchi’. Anche io avrei potuto scrivere in quel modo, ma chi ha bisogno di opere simili?” [5].
Nella sua miseria, Florenskij si sentì più vicino a Dio. “Sto notando ultimamente,” disse a Elchaninov, che mi succede qualcosa di strano. Prima la mia preghiera non era mai così forte come ora che sembra che io sia meno degno che mai. Mi viene l’impressione che Dio esca deliberatamente a incontrarmi per vedere che fine voglio fare. A volte ho una strana sensazione, assurda da un punto di vista teologico, forse perché non posso esprimerla in modo appropriato: è come se a volte mi dispiacesse per Dio, perché sono nato così malvagio… Sì, posso esprimerla così. Quando uno si arrabbia davvero, allora gli altri iniziano a essere d’accordo con lui e a fare quel che vuole. È così che Dio sta trattandomi ora. Naturalmente, solo nelle piccole cose. Ieri, per esempio, V. B. [che in seguito divenne lo suocero di Florenskij] non era tornato a casa ed era già tardi. Ero molto preoccupato. L’ora solita era passata: di solito rincasa attorno alle 11 di sera. Ero terribilmente allarmato e iniziai a pregare e avevo appena finito di pregare, quando arrivò alla porta” [6].
A un certo punto, Elchaninov e Florenskij discussero di un certo Vescovo Gabriel. “Il giorno prima,” scrive Elchaninov, “[il vescovo] aveva celebrato da noi e io rimasi affascinato dalla solennità e dalla particolarità con cui celebrava. Ne parlai con Pavel. ‘Conosci la mia opinione di lui,’ iniziò a dirmi con irritazione. ‘Tutto suona falso e teatrale. Egli pronuncia le parole e si sente che il tono e la dizione sono preparati in partenza e che si guarda intorno per vedere che tipo di impressione quelle parole creano negli altri. È possibile che oggettivamente tutto ciò si possa spiegare in modo diverso. Ma io lo conosco e non posso liberarmi da questa sensazione. Conosce bene il servizio della chiesa, lo ama; ma questa precisione e questa efficacia non è il modo ortodosso di fare le cose. C’è in te molto dell’occidentale e per noi, al contrario, il servizio della chiesa è amato proprio quando viene condotto come in ogni parte della Russia, dove è goffo, caotico e via dicendo. Amiamo l’aspetto degli schiavi [7], mentre tu vorresti che perfino gli stracci sembrino irreali e abbiano i bordi di seta. Ciò che sto dicendo è evangelico, non solo ortodosso. Perché Cristo amava tanto la compagnia delle prostitute e dei pubblicani? Immaginale: erano vere puttane che litigavano, parlavano in modo indecente, imprecavano… e Cristo preferiva la loro compagnia a quella dei farisei. Pensaci, perché si dice, ‘Il potere di Dio si vede nella povertà’? La povertà non è solo debolezza, non è qualche malattia poetica come la tubercolosi, ma peccaminosità, corruzione. Cristo stava con i peccatori non solo perché ne avevano più bisogno, ma perché per Lui era più piacevole stare con loro; li amava per la loro semplicità e umiltà” [8].
Le parole di Florenskij toccano un tasto familiare per quelli di noi che vogliono cercare di essere ortodossi in Occidente. Mancandoci la giusta “sensazione” per tutto il mondo di pietà che si è sviluppato in secoli di esperienza pratica e umana nella Chiesa Ortodossa, siamo troppo proni a volere una Ortodossia che sembri “di prima qualità” e a farci attrarre dalla lucentezza, dalla correttezza e dalla precisione. Una sorta di vano artificio cerca di coprire il nostro vuoto. Ma il nostro amore per quello che brilla può anche venire dall’erronea e profondamente radicata credenza nel progresso: “dopo tutto, noi moderni siamo più sofisticati di quelli che ci hanno preceduti”. Per noi occidentali, “l’aspetto degli schiavi,” i brutti, i poveri, gli insignificanti, sono spesso repellenti, o per lo meno al di sotto della nostra dignità. Per la mentalità ortodossa di Florenskij, invece, sono affascinanti e toccano il cuore, poiché sono reali.

Abate Herman
Padre Damascene

(“The Orthodox word”, 1987; I – continua)

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