LA “CHIESA DEL SILENZIO” IN URSS: NUOVI DOCUMENTI SVELANO LE PERSECUZIONI

Il quotidiano cattolico “Avvenire” ha dedicato, nell’edizione di giovedì 28 giugno 2019, un importante articolo a firma di Gianpaolo Romanato che ha recensito il volume “Chiesa del silenzio e diplomazia pontificia 1945-1965” ripercorrendo, con dovizia di riferimenti storici, il drammatico periodo delle persecuzioni subite dalla Chiesa nei Paesi sottomessi al giogo sovietico. Il volume è pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. Riproponiamo l’articolo per i lettori de “I sentieri dell’icona”. 

In chi è meno giovane l’espressione “Chiesa del silenzio” evoca una stagione di sofferenze e divisioni implacabili. Nei più giovani, purtroppo, è probabile che non evochi nulla. Segnaliamo perciò questo volume in edizione bilingue, italiano e slovacco, pubblicato dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche e dalla Facoltà di diritto canonico San Pio X di Venezia, in collaborazione con la diocesi di Spis, in Slovacchia: Chiesa del silenzio e diplomazia pontificia 1945-1965/Umlcaná Cirkev a pápežská diplomacia 1945-1965, a cura di Emilia Hrabovec, Giuliano Brugnotto e Peter Jurcaga (Libreria Editrice Vaticana, pagine 450, euro 25,00). La stagione del dialogo e dell’Ostpolitik verso i regimi comunisti, coincisa con il periodo postconciliare, ha dovuto stendere molti veli sulla spietata repressione che negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale il cattolicesimo aveva subito nei paesi sovietizzati dell’Est europeo.

Ma ora che il comunismo in quei paesi e in Russia non c’è più, non ci sono ragioni per tacere su quanto avvenne: le incarcerazioni, le torture, i processi, la selvaggia repressione che mirava a distruggere le Chiese cristiane e soprattutto la Chiesa cattolica. Questa, infatti, disponeva di un potere e di un audience che le altre Chiese non avevano, potendo fare riferimento al Vaticano, la “centrale internazionale della reazione”, come martellava di continuo la propaganda comunista di allora in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, i quattro paesi presi in considerazione nel libro. Qui la Chiesa cattolica godeva di un profondo radicamento, o nella sua versione latina o in quella di rito greco- cattolico. Facevano parzialmente eccezione solo la Boemia e la Moravia, allora facenti parte della Cecoslovacchia, dove pesava la tradizione antiromana risalente al movimento hussita. La guerra al cattolicesimo divenne perciò implacabile da parte di regimi comunisti che miravano al controllo totale dello Stato e delle coscienze. In più il cattolicesimo era una realtà universale, guidata da un governo autonomo e indipendente – la Santa Sede – che operava fuori dai paesi a guida comunista, un governo rappresentato in ciascuna capitale dalle nunziature, canale di collegamento fra i due mondi contrapposti attraverso il quale passavano denaro, informazioni, stampati. La chiusura delle nunziature e l’espulsione dei nunzi fu perciò un provvedimento adottato in tutti questi paesi, non appena vi presero il potere i comunisti, cui fecero seguito misure legali o poliziesche che estinsero seminari, case religiose, parrocchie, scuole. L’obiettivo era zittire il cattolicesimo, ridurlo al silenzio, spegnerlo fuori e, se possibile, anche dentro il cuore della popolazione. Parallelamente, erano create associazioni nazionali allineate al regime nelle quali veniva intruppata quella parte del clero e del laicato che, per paura o convenienza, era disponibile a collaborare. I dati riferiti del libro ci dicono, con particolare riferimento alla Polonia e alla Cecoslovacchia, che solo piccole minoranze aderirono a queste associazioni. Ma l’ostacolo maggiore erano i vescovi, alcuni noti anche all’estero. Molti di essi furono incarcerati, sottoposti a vessazioni di ogni tipo, processati in pubblico. Le accuse erano tutte politiche: spionaggio, traffico di valuta estera, tradimento dello Stato, collaborazionismo. Il più tristemente celebre di tali processi, talmente pretestuosi da essere bollati con l’espressione di processi-farsa, è quello intentato in Ungheria contro il primate il cardinale József Mindszenty, che si concluse nel 1949 con la condanna all’ergastolo. Ma in queste pagine si ricordano altre figure, non meno eroiche, benché meno conosciute, come lo slovacco Ján Vojtassák, che all’età di 74 anni fu condannato a 24 anni di detenzione, subendo brutali naltrattamenti. Sconterà 11 anni, fino alla liberazione, ottenuta nel 1963 grazie alle pressioni della Santa Sede. Quando uscì dal carcere, aveva 85 anni. Ne visse altri due, prima di spe- gnersi a Praga, dove era stato comunque internato.

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Ancora più selvaggia fu la repressione in Romania a danno della chiesa greco-cattolica, forzatamente accorpata nel 1948 alla chiesa ortodossa locale, come era già accaduto due anni prima in Ucraina, il cui metropolita, il vescovo Josyp Slipyj, poi cardinale, di cui sono appena uscite in italiano le Memorie, sconterà 18 anni di gulag in Siberia. I sette vescovi greco-cattolici romeni morirono tutti in carcere, alcuni a causa di torture fisiche che ricordano le più feroci persecuzioni dell’Impero romano. Davvero una pagina degradante per chi la provocò, che resta scolpita nella galleria degli orrori del secolo appena trascorso. Dopo la fine del comunismo gran parte di questi processi sono stati annullati, con piena riabilitazione anche sul piano civile dei condannati. Ma le sofferenze fisiche e morali inflitte a persone inermi, molte oggi in via di canonizzazione, rimangono e ci obbligano ad aggiornare il concetto di martirio. E tuttavia è necessario precisare che questo libro – dovuto al lavoro di storici conosciuti come Emilia Hrabovec, Roberto Scagno, Miroslaw Lenart, András Fejérdy, Somorjai Ádám – non concede nulla all’agiografia. Della figura di Mindszenty non si tacciono i legami psicologici e culturali con la vecchia Chiesa di Stato austro-ungarica, cioè con un mondo ormai tramontato, che non diminuiscono il valore della sua testimonianza morale (fu quasi il simbolo della Chiesa martire di quegli anni), ma ne riducono inevitabilmente l’importanza storica. Come reagì la Chiesa a queste persecuzioni? L’azzeramento della gerarchia ecclesiastica portò alla decisione di dar vita a una Chiesa clandestina, in grado di operare quando fossero stati impediti i vescovi ufficiali. Dove e fino a che punto sia arrivato questo esperimento (certamente avviato in Ungheria e in Slovacchia, probabilmente anche in Romania) rimane nel dubbio, dato che la clandestinità e la necessità di eludere ogni controllo di polizia, imponeva di tenere tutto segreto, di affidarsi solo all’oralità, senza lasciare nulla di scritto. È sicuro che da Roma furono concessi ai vescovi poteri straordinari ed è probabile che, grazie a tali facoltà, sacerdoti e anche qualche vescovo (probabilmente due in Ungheria) siano stati consacrati nell’anonimato più assoluto. Forse i documenti vaticani al riguardo, al momento inaccessibili, potranno dare qualche indicazione più precisa.

L’unico paese in cui la repressione dovette venire a patti con una Chiesa che si rivelò un ostacolo indigeribile anche per il carro armato comunista fu la Polonia, grazie soprattutto alla fermezza, non disgiunta da duttilità, del primate Stefan Wyszynski. E tuttavia, nonostante la brutalità della repressione, fino al 1947-48 a Roma si sperò di poter stabilire un qualche modus vivendi con i regimi comunisti. Johan Ickx, sulla base di documenti vaticani, rivela che Pio XII autorizzò alcuni gesuiti ungheresi a contattare esponenti comunisti, anche sovietici, per cercare un’intesa. Il tentativo non riuscì e dal 1948 fu rottura totale. È allora che si inizia a parlare e a scrivere di Chiesa del silenzio. Silenzio anche perché a Roma giungevano notizie frammentarie e imprecise, spesso tramite il canale delle ambasciate o di diplomatici di paesi terzi, che costringevano a muoversi quasi alla cieca e rendevano difficile trovare una linea di condotta condivisa. La politica adottata in Polonia da Wyszynski, che dopo aver subito internamenti e arresti stabilì un’intesa col regime, a Roma non trovò tutti consenzienti. «Loro pensano secondo gli schemi – scrive il primate – e non riescono a capire la complessità della realtà sociale della Polonia». Sembra che solo in Pio XII abbia trovato comprensione e approvazione. A lettura ultimata di questo libro si resta con il desiderio di saperne di più, di andare avanti, di spalancare una porta che comincia finalmente ad aprirsi. Sulla Chiesa del silenzio bisogna rompere ormai il silenzio, a costo di urtare sensibilità e interessi che ancora pesano nel dibattito pubblico, anche ecclesiale, perché rappresenta una pagina fondamentale della vicenda postbellica. Una pagina che appartiene alla grande storia del Novecento (non dimentichiamo che il comunismo tentò, quasi riuscendoci, di assassinare un papa) e non solo alla storia della Chiesa.