LA LINGUA LITURGICA NELL’ORTODOSSIA: UNA RIFLESSIONE PER CAPIRNE DI PIÙ

Nel 2011 l’archimandrita Georgios Antonopoulos ha pubblicato un testo incentrato sull’elemento linguistico nella Chiesa ortodossa. L’argomento, che costituisce tema di frequente curiosità e interesse anche fra i lettori de “I sentieri dell’icona”, è stato raramente affrontato in una esposizione organica e ragionata. La pubblicazione è stata recentemente riproposta dal sito della Sacra Arcidiocesi d’Italia e Malta. La presentiamo qui per gli amici del nostro sito.

93F1FAC4-AF2E-4E3D-991B-16E8604D213E

dell’archimandrita Georgios Antonopoulos 

Conforme alla sua creazione da parte del Dio trino, tra altri carismi, l’uomo fu dotato anche di quello della parola, che, unitamente ad altre caratteristiche particolari, lo rese signore della creazione. Con il dono divino del linguaggio, l’uomo entra in comunicazione con i suoi compagni d’umanità, crea cultura, scopre l’uso della scrittura e, di conseguenza, riesce a esporre i propri pensieri dando testimonianza della propria esistenza; mettendo per iscritto avvenimenti che crea la storia ed esprimendo le idee e le proprie riflessioni, agisce filosoficamente e si coltiva intellettualmente. Uno degli avvenimenti dell’epoca umana decaduta è anche la confusione delle lingue, come viene descritta nel cap. 11 della Genesi. La disposizione dell’animo umano, desideroso di rendersi autonomo dalla divina volontà e, di conseguenza, la scissione fenomenica (non quindi sostanziale) dell’unità del genere umano comporta anche la differenziazione linguistica e la formazione di coscienze e identità nazionali.
Nell’età della Chiesa, tale confusione diviene unità. Nel giorno di Pentecoste, anniversario della nascita della Chiesa, ascoltiamo dalle parole dell’innografo il ricordo del fatto che “ote katavas… Quando con la sua discesa confuse le lingue, l’Altissimo divideva le genti, quando distribuì le lingue di fuoco, richiamò tutti all’unità e concordemente diamo gloria allo Spirito Santo”. Nel libro degli Atti, l’evangelista Luca descrive splendidamente l’evento del dono dello Spirito Santo e, di conseguenza, del dono delle lingue e della comprensione del messaggio da parte di uomini di differenti nazionalità e origine. Nel corso della sua millenaria storia, la Chiesa ha affrontato con buon senso il problema linguistico, non solo nell’insegnamento, ma anche nel culto. Classico esempio, che riflette lo spirito della prassi ortodossa e del Patriarcato Ecumenico, rimane quello dei due isapostoli Cirillo e Metodio (860). Questi due grandi illuminatori degli Slavi, non solo non tentarono di ellenizzare i popoli slavi, ma anzi posero le basi dello sviluppo linguistico, spirituale e nazionale delle genti slave.
Ricordo che molto più tardi, nel 1872, il grande sinodo, convocato a Costantinopoli, sotto il Patriarca Antimo VI, caratterizzò come ἐθνοφυλετισμός “nazionalismo” la separazione tra fedeli, come pure la pretesa d’indipendentismo delle chiese, sulla base del criterio esclusivo di differenza nazionale. Tuttavia credo che valga la pena citare il detto di un grande personaggio -non Greco, lo eviterei per scansare l’accusa di narcisismo nazionalistico- ma del grande teologo russo contemporaneo p. Georgji Florovskji: l’ortodossia ha madre e matrice greca. Lo cito per mostrare l’importanza capitale della lingua greca e del suo spirito per l’intera ortodossia. Per completezza aggiungo che anche in Occidente, nel cuore del cristianesimo occidentale, a Roma, fino al VI secolo, la lingua liturgica ufficiale fu (anche) quella greca; ma anche a Napoli, dove presto il mio servizio, fino all’alto medioevo esistevano circa 70 chiese di rito greco. Tutte le chiese ortodosse hanno ricevuto i testi liturgici e la maggior parte della letteratura ecclesiastica dall’originale greco. Basta occuparsi solo un po’ con tali testi liturgici per concepire il lavoro illuminato, faticoso, ricco di frutti spirituali, svolto dai traduttori per rendere con pienezza tanto il contenuto quanto la musicalità degli originali.
Nella nostra epoca, epoca di globalizzazione, ove ormai i confini, lo spazio e i luoghi costituiscono ostacoli meno insuperabili per la comunicazione tra i popoli e il loro reciproco contatto, il positivo influsso reciproco, come risultato dell’avvicinamento e della mutua conoscenza, contribuiscono all’unità dei popoli, ma anche, specialmente, dei fedeli. Così l’impiego di differenti idiomi in un culto comune contribuisce all’unità dell’assemblea eucaristica, dato che uomini di diversa origine e provenienza etnica, compartecipano alla pari al corpo della chiesa locale, mantenendo parallelamente le loro specifiche caratteristiche nazionali.
La lingua non è lo scopo, ma il mezzo, lo strumento, con il quale la chiesa rivolge la sua Parola al gregge dei fedeli, il canale e il tramite della sua ricchezza spirituale e della sua esperienza santificante nello Spirito santo, il mezzo della comunione, del dialogo, dell’espressione. Forse in futuro sarà necessario un tentativo, e so che viene attuato dalla nostra Arcidiocesi, per la traduzione di ulteriori testi liturgici, all’infuori di quelli che già esistono, nella lingua del Paese in qui viviamo, l’Italia. È un’opera faticosa che richiede non solo la traduzione grammaticale, ma anche la resa dello spirito, del senso, della ricchezza poetica e della perfezione filologica dei testi, nonché l’adattamento metrico per l’impiego liturgico. Finisco le mie brevi riflessioni con l’invito del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, come fu espresso nel discorso inaugurale durante la riunione di clero e popolo nell’anno 2000, nella regina delle città. Tra l’altro Sua Santità riferisce: “La fede ortodossa non si manifesta come unitaria agli occhi di chi le è estraneo, ma si differenzia secondo le sue origini, in ortodossia greca, russa, rumena, serba, antiochena, ecc. Il risultato è che il non ortodosso, interessato a entrare nella fede ortodossa … riceve lo strano messaggio che deve mutare anche la sua nazionalità”. Tuttavia, proponendo l’esempio dell’accesso al cristianesimo delle Genti, che il sinodo dei Ss. Apostoli liberò dall’obbligo di osservare la legge mosaica, caratterizza come “venerande e care” le tradizioni nazionali di ciascuna chiesa, ma non imponendole agli altri. E Sua Santità continua in riferimento alla questione linguistica: “Benché sappiamo che a volte inconsciamente agiscono determinati timori o esitazioni, ricordiamo la parola del Signore: “chi viene a me non lo caccerò fuori” (Giov 6, 37). Coerentemente la parrocchia ha il dovere cristiano di trovare il modo di accettare coloro che chiedono di diventare suoi membri. Certamente saranno necessarie alcune riforme, forse anche particolari liturgie nei loro propri linguaggi, oltre alle lingue in cui ordinariamente si celebrano. Forse sarà necessario l’impiego alternativo di più lingue nella stessa Liturgia, con l’eventuale stampa di libretti multilingue contenenti i testi liturgici, per essere d’aiuto dei partecipanti alla Divina Liturgia. Eventualmente un’altra soluzione, a cui ogni parrocchia potrà ispirarsi, a seconda delle circostanze, riuscirà utile ai nuovi fedeli. Tuttavia il nostro orientamento fondamentale deve essere quello che tutto si compia con amore e disposizione al servizio delle necessità … e che si reperiscano gli opportuni adattamenti, ove necessario”. A questo punto si potrebbe concludere citando Paolo: “se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho la carità, sono un bronzo che risuona o un cembalo sonante”.