IL MARTIRIO NELLA TRADIZIONE SLAVA: LA RIFLESSIONE DEL CARD. TOMAS ŠPIDLIK

Quali sono le affinità, e quali le differenze, rispetto alla concezione del martirio fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente? La domanda si presenta con una certa frequenza fra quanti si interessano alle peculiarità delle due tradizioni, anche con riferimento all’arte iconografica. E ad essa ha dato una esaustiva risposta il compianto cardinale Tomas Špidlík (1919-2010), fra i massimi conoscitori e studiosi della spiritualità orientale. Riproponiamo la sua riflessione agli amici de “I sentieri dell’icona”.

del card. Tomas Špidlík

Sono in genere i martiri coloro che aprono il corteo dei santi nella storia di una nazione cristiana. Ciò è comprensibile dalle circostanze storiche come reazione, talvolta violenta, come autodifesa delle credenze antiche che non volevano cedere il posto al nuovo culto. Ma presso gli slavi, la religione pagana non era sufficientemente organizzata da opporre una resistenza violenta al nuovo pensiero cristiano. Del resto, una tale resistenza sarebbe stata un anacronismo nel contesto culturale-politico europeo. Nella comunità dei popoli europei, gli slavi ricevettero il battesimo come “operai dell’ultima ora”. Ciò nonostante, il sangue dovette bagnare i nuovi campi seminati dal Vangelo. Si tratta di veri martiri?

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Nell’antico Regno di Kiev essi furono chiamati strastoterpsi, cioè, letteralmente, “quelli che soffrirono la passione”. Si dice talvolta che siamo di fronte ad un nuovo tipo di santità, tipicamente slavo, differente dalla santità dei martiri. Vediamo i casi concreti. A Kiev fu istituito il culto dei Santi Boris e Gleb. Ecco come si svolsero i fatti: San Vladimiro, il primo principe cristiano della terra di “Rus”, morì nel 1015. Essendo assente il figlio maggiore Jaroslav, nella città capitale rimase, unico dei figli, Sviatopolk. Questi approfittò della situazione per usurpare il trono. Per sbarazzarsi degli altri pretendenti fece uccidere il giovane fratello Boris, reduce da una spedizione militare; poi il fratello Gleb, ancora ragazzo; infine il fratello Sviatoslav. Ma, l’anno seguente, il fratricida venne deposto da Juroslav e morì dopo le sconfitte. Il culto di Boris e Gleb fu istituito appena cinque anni dopo la loro morte e le loro reliquie furono collocate nella chiesa di Vysgorod. Fu loro dedicata una festa nel calendario e composto un ufficio in loro onore. Ma la canonizzazione pone seri problemi teologici. Appare subito come i fatti esterni siano insufficienti ad introdurre un culto e ad attribuire loro il titolo di “martiri”. Secondo le magistrali istruzioni di Benedetto XIV Sulla beatificazione dei servi di Dio e sulla canonizzazione dei beati si deve esaminare attentamente l’intenzione del persecutore in simili casi di morte violenta. E da parte del perseguitato deve essere liberamente accettata per la fede in Cristo, o per una virtù che ha rapporto con Dio.

Come si vede dall’ultima frase, il Papa lascia aperta la possibilità ad una interpretazione più ampia del martirio. E’ martire non solo chi muore per la professione della fede cristiana, ma anche quello che da la vita per altre virtù autentiche. Questo allargamento del concetto di martirio appare fortemente nelle biografie dei santi slavi, come nella biografia dei santi Boris e Gleb redatta dal monaco Nestore. Boris vi è raffigurato come un guerriero giovane e valoroso, che accetta volontariamente la morte, rinuncia a difendersi, dicendo: «Non mi è consentito levare la mano contro il mio fratello, tanto più contro quello maggiore che ora fa per me le veci del mio padre». Egli stima quindi la virtù della pietà familiare più della sua stessa vita. Gli si mette nella bocca questa bella preghiera: «Signore Gesù Cristo, tu che ti degnasti di comparire sulla terra in questa forma umana e ti lasciasti volontariamente inchiodare sulla croce; tu che accettasti la passione a cagione dei nostri peccati, concedimi di accettare la mia. La ricevo non già dai nemici, ma da mio fratello. Signore non imputarla a suo peccato… Degnati o Signore, di farmi imitare i santi martiri…!»

Considerato da questo punto di vista, san Boris, secondo le persuasioni del biografo, muore per motivi puramente religiosi, anche se da parte del suo persecutore si tratta di un crimine politico. La questione però è più delicata nel caso di san Gleb, dato che si tratta di un piccolo ragazzo. La sua morte è dipinta con crude realismo. Il bambino supplica il suo assassino di risparmiarlo: «Non uccidermi, fratello mio diletto, non uccidermi…, abbi pietà della mia giovane età, mio signore. Tu sarai il mio signore e io sarò il tuo schiavo». Questo pianto di un bimbo che si lamenta “d’essere sgozzato senza alcuna ragione” ha commosso molto la pietà popolare, la quale, anche in seguito, non ha esitato a venerare i bambini innocenti, vittime di morte violenta.

Anche la Chiesa latina venera i bambini morti per Cristo. Il caso classico è offerto dai santi Innocenti ai quali però San Tommaso d’Aquino nega “l’aureola”, perché non hanno lottato. Ma qui il Dottore Angelico è più severo degli altri. Se la morte per Cristo equivale al battesimo, questa santificazione per mezzo del sangue non deve esigere dall’individuo maggiori disposizioni di quelli richieste per il bagno battesimale che purifica l’anima dei piccoli anche senza la loro consapevole partecipazione.

Ma il nodo centrale della questione rimane sempre quello di determinare che cosa sia esattamente una “morte per Cristo”. In Occidente, si è manifestata la tendenza a giudicare rigorosamente, caso per caso, il movente del martirio, l’intenzione del persecutore. Al contrario il sentimento religioso slavo si è mostrato molto più largo. Si dice che ci sia tra gli slavi una mistica della morte. «Da noi – scrive Turgenev – ogni contadino muore come se compisse un rito. La forza santificatrice di quel “rito” si ritiene sia tale da purificare l’anima di chi non frappone ostacoli. L’anima esce così come da un bagno di purificazione che purga le vittime da tutti i peccati e da tutte le macchie”, come si legge nella vita del santo principe-martire russo Andrea Bogoljubskj (1110-1174).

Si sa che i Padri, e sulle loro tracce la scolastica, hanno cercato di scacciare il terrore della morte con il richiamo all’immortalità dell’anima. Questa era provata filosoficamente: l’anima formula delle idee e dei principi eternamente validi, è quindi, di natura sua intellettuale ed eterna. Tutti gli idealisti si consolano con questo sotterfugio, anche se non credono in Dio. L’uomo individuale muore, ma le sue idee restano, esse sono eterne. Ora, questo modo di argomentare non può soddisfare il sentimento slavo. I pensatori russi disprezzano “la stolta eternità” delle idee astratte. La verità che rispecchia la realtà è vivente e concreta. La morte sembra distruggere non solo l’uomo, ma la verità come tale. Cercare la verità torna a porre la domanda di come vincere la maledizione della morte. Questo legame tra la verità e la morte fu intensamente sviluppato da N.F.Fedorov. Egli ha vissuto e riflettuto avendo sempre davanti a se l’immagine della morte, non della sua ma di quella degli altri uomini durante tutta la storia. Questo perché la lotta contro la morte è il suo principale impegno, perché la morte è il solo e ultimo male. Tutto deve essere messo in opera per vincerla. La risurrezione sarà contemporaneamente il risultato della grazia divina e quello dell’attività umana. Ma abbiamo noi le forze necessarie per combattere la morte? Da soli no. In questa lotta l’uomo è vinto. Eppure quelli che hanno unito la loro morte con quella del Cristo, vincono la morte con la morte. Essa diventa per il cristiano, come il battesimo nel quale nasce la vita.

Quanto si dice della morte viene poi esteso alla sofferenza in genere. Il gesuita russo I.Kolgrivof scrive del suo popolo che «è per natura, abituato a soffrire, ed il cristianesimo non farà che sublimare questa abitudine o virtù, mostrandogli nella felicità futura null’altro che una meravigliosa trasfigurazione della sofferenza». Di fatto la storia dei popoli slavi è una via dolorosa, costellata di eventi sanguinosi. La sofferenza, per usare l’espressione del poeta Nekrasov «vi si riversa a grandi fiotti, ancora più abbondanti di quelli del Volga nella stagione primaverile».

Perciò i pensatori slavi si sono sempre soffermati ad indagare sul vero senso del dolore, delle violenze sofferte. Esempio recente è Pasternak. Il suo romanzo Dottor Zivago descrive gli anni umanamente perduti e le privazioni di tutto il popolo nel tempo del terrore comunista. Si pone quindi la domanda: a che cosa tutto questo serviva? La risposta si trova nelle ultime righe del libro in una poesia: «L’anima è triste fino alla morte… Eppure il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa di ogni cosa sacra. Ora deve compiersi ciò che fu scritto, lascia dunque che si compia. Amen».

La sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato, che hanno sbagliato indirizzo di vita ma che lo sanno ammettere, che accettano che il “castigo” sana il “delitto”. Delitto e castigo è il titolo appunto del romanzo di Dostoevskij che si occupa espressamente di questo problema. In esso leggiamo queste parole: «La sofferenza è una buona cosa… tramite essa tutto è espiato».

«Tutte le religioni – scrive N.Berdiaev – sin dalle credenze dei selvaggi primitivi, si fondano sull’atteggiamento verso la morte». Il fatto della morte e della sofferenza è uno dei primi stimoli che risvegliano una riflessione metafisico-religiosa. «L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono. Questo è il senso più esatto e più profondo del cogito di Descartes. La sofferenza è legata all’esistenza stessa della persona e della coscienza personale(…). Dostoevskij vedeva nella sofferenza la sola causa della nascita della coscienza». Ciò corrisponde al Martirologio romano che indica il giorno del martirio dei santi con il termine natalis, nascita alla vera vita.