IL “RENDIMENTO DI GRAZIE” A DIO PADRE DI SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

È una meditazione ma anche una, seppur lunga, preghiera; una testimonianza e pure, se così si può dire, il “racconto di un’anima”. Si tratta del testo intitolato “Rendimento di grazie” di San Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) che può utilmente guidare un momento di preghiera ma anche accompagnare il raccoglimento con una lettura, si sarebbe detto un tempo, edificante per lo spirito. Lo proponiamo, dunque, in traduzione integrale italiana per i lettori de “I sentieri dell’icona”.

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RENDIMENTO DI GRAZIE
San Simeone il Nuovo Teologo

Ti rendo grazie, Padrone, Signore del cielo e della terra [Mat 11,25; Luc. 10,21], tu che prima della fondazione del mondo (Giov 17, 24; Ef 1, 4; 1 Pt 1, 20] hai predestinato che dal non essere io nascessi all’essere. Ti rendo grazie perché, prima che giungesse il giorno e l’ora [Mat 24, 36; 25, 13] in cui avevi ordinato che io fossi messo al mondo, tu stesso, il solo immortale [1 Tim. 1, 17; 6, 16], il solo onnipotente, il solo buono e amico dell’uomo, scendendo dalla tua santa altezza [Sal 102 (101), 20], pur senza uscire dal seno del Padre, e incarnandoti e nascendo dalla santa Vergine Maria, mi hai in anticipo riplasmato e rivivificato e liberato dalla caduta dei progenitori, e mi hai in anticipo preparato l’ascesa ai cieli. Poi, una volta nato e mentre a poco a poco crescevo, tu stesso mi hai rinnovato col santo battesimo della rigenerazione [Tit. 3, 5], mi hai ornato con il santo Spirito, mi hai posto come custode l’angelo di luce [2 Cor. 11, 14] e mi hai sempre custodito incolume, fino all’età adulta, dalle azioni ostili e dai tranelli del nemico.
Poiché hai ritenuto giusto che noi ci salvassimo non per forza, ma per libera decisione, hai lasciato che anch’io fossi onorato del libero arbitrio e che l’amore verso di te fosse dimostrato dalla libera osservanza dei tuoi comandamenti: ma io, insensato e sprezzante, considerando la dignità del libero arbitrio come un cavallo [Sal 32, 31, 9; Sir. 30, 8] sciolto dalla cavezza, mi sono gettato nel precipizio sottraendomi con un balzo alla tua signoria. Mentre io giacevo là e mi ci rivoltavo incoscientemente rovinandomi sempre più, non hai distolto con orrore il tuo sguardo da me, non hai permesso che giacessi e mi macchiassi nel fango, ma per le viscere della tua misericordia [Luc 1, 78] mi hai mandato a cercare, mi hai fatto risalire di là e mi hai onorato anche più splendidamente, e nei tuoi giudizi ineffabili mi hai liberato da re e potenti, che volevano usarmi come strumento spregevole [Rom 9, 21; 2 Tim 2, 20] a servizio della loro volontà; sebbene io fossi avido di ricchezze, non mi hai permesso di ricevere doni d’oro e d’argento, e la gloria e lo splendore della vita, che mi venivano offerti perché io vendessi la tua santificazione, mi hai fatto il dono di considerarli come un abominio. Ma tutte queste grazie te lo confesso, Signore Dio del cielo e della terra [Mat 11, 25; Luc. 10, 21] – le ho considerate ancora una volta come un niente e mi sono gettato, sciagurato, nella fossa e nella melma dell’abisso [Sal 69 (68), 3] dei pensieri e delle azioni vergognose, e, discesovi dentro, sono incappato nei nemici nascosti nelle tenebre, dai quali non io solo, ma neppure il mondo intero riunito insieme avrebbe potuto tirarmi su sottraendomi alle loro mani.
Tuttavia, mentre mi trovavo lì in una pietosa prigionia e venivo miseramente strapazzato, soffocato e deriso da loro, tu, Padrone misericordioso e amico dell’uomo, non mi hai trascurato, non mi hai serbato rancore, non hai distolto lo sguardo dal mio animo ingrato, non hai permesso che io fossi tiranneggiato a lungo volontariamente dai ladroni. Anche se io, nella mia incoscienza, ero contento di vagabondare insieme a loro, tu non hai sopportato di vedermi portare in giro e sballottare ignobilmente, Padrone, ma hai provato misericordia e pietà, e a me, miserabile peccatore, non hai inviato un angelo o un uomo, ma tu stesso [Is 63, 9], mosso dalle viscere della tua bontà, curvandoti su quell’abisso profondissimo, hai dispiegato la tua mano immacolata su di me, che giacevo immerso giù nel fango profondo; io non ti vedevo – e dove avrei potuto vederti, o come avrei avuto la forza di levare lo sguardo in alto, avvolto e soffocato com’ero dal fango? – ma tu mi hai afferrato per i capelli della testa [Dan 14, 36] e tirandomi con forza mi hai strappato via di là. Io percepivo la fatica e la continua attrazione verso l’alto e mi accorgevo di salire, ma ignoravo assolutamente da chi ero tirato, chi era mai che mi teneva e mi tirava in alto. Dopo avermi tirato su e rimesso sulla terra, mi hai consegnato al tuo servo e discepolo; io ero tutto insudiciato, con gli occhi, le orecchie e la bocca otturati dal fango, e nemmeno così vedevo chi sei, ma avevo capito soltanto quale grande bontà è mai la tua e come sei amico dell’uomo: eppure mi hai tratto fuori da quella fossa profondissima e dal fango. Tu mi dicesti: « Reggiti, attaccati a quest’uomo e seguilo: lui ti porterà via e ti laverà »; mi facesti la grazia di una salda fede in lui e ti ritirasti. Dove eri andato, lo ignoro.
Colui che mi era stato indicato da te, Santissimo Padrone, io lo seguii senza voltarmi, come mi avevi ordinato; egli mi conduceva con gran fatica alle sorgenti e alle fonti: io ero cieco e mi trascinavo dietro a lui grazie alla mano della fede da te concessami, costretto a seguirlo per una strada dove egli, che ci vedeva bene, alzava i piedi e saltando passava attraverso tutti i sassi, le buche e le pietre d’inciampo, ma a me capitava di andarci a sbattere contro e di cadere. Sopportai parecchie fatiche, parecchie molestie e afflizioni. Egli, per conto suo, si bagnava e si lavava al momento opportuno ad ogni sorgente, mentre io, non vedendo, ne oltrepassavo la maggior parte. Infatti, se egli non mi avesse tenuto per la mano e non mi avesse fatto fermare alla fonte guidando le mani della mia mente, non sarei mai riuscito a trovare la sorgente d’acqua. Egli me la indicava e mi permetteva spesso di bagnarmici, ma insieme all’acqua pura prendevo con le mani anche la melma e il fango che si trovavano intorno alla fonte e mi sporcavo il viso; spesso, cercando a tastoni di trovare la sorgente dell’acqua, afferravo insieme anche il terriccio, rimescolavo il fango e, non vedendoci affatto, mi sporcavo il viso col fango come se fosse acqua, credendo di lavarmi per bene.
Come potrò raccontare la condizione di pena e di violenza in cui mi trovavo per questo motivo? Non solo, ma alcuni spesso mi scongiuravano, mi davano consigli, e ogni giorno mi dicevano: « Perché stai a faticare inutilmente, agendo da stolto? Perché vai dietro a questo ingannatore e imbroglione, aspettandoti invano e inutilmente di poter recuperare la vista? Adesso è impossibile! Perché lo segui inciampando con i piedi e insanguinandoti? Perché invece non te ne vai da persone più pietose, che ti inviterebbero a riposarti, a nutrirti e a curarti bene? Non ti è permesso liberarti dalla lebbra dell’anima, e nemmeno recuperare la vista, adesso. Da dove è uscito fuori questo imbroglione miracolista, che ti promette cose che sono impossibili a tutti gli uomini dell’attuale generazione? Poveretto te! Perderai la cura che ti offrono uomini compassionevoli, che amano Cristo e i fratelli, e invece patirai le molestie e le afflizioni cui ti sottoponi per le tue vane speranze, e resterai certamente deluso dalle promesse che ti fa questo seduttore imbroglione. Insomma, che cosa è capace di fare? E anche a prescindere da quel che ti diciamo noi, non ci rifletti tu stesso per conto tuo, non ci pensi? Come! Tutti quanti noi non ci vediamo!? Siamo ciechi, come ti dice questo sbandato? Ci vediamo tutti, invece, e come! Non si può vedere meglio di così, non lasciarti abbindolare! » [Giov 9, 40-41]. Ma da tutti costoro, i veri seduttori e imbroglioni, che mescono al prossimo bevande intorbidate [Aba 2, 13], mi liberasti tu, pietoso e misericordioso, grazie alla fede e alla speranza da te donatemi, per mezzo delle quali mi rendesti capace di sopportare queste parole e molte altre ancora.
In tutte queste difficoltà, dunque, tenevo duro senza disertare, bagnandomi ogni giorno nell’acqua torbida e credendo di lavarmi, come mi insegnava a fare il tuo apostolo e discepolo; finché una volta, mentre camminavo correndo verso la fonte, tu stesso, che già prima mi avevi tratto fuori dal fango, mi sei venuto incontro sulla strada. Allora per la prima volta folgorasti i miei deboli occhi con l’immacolato splendore del tuo volto, e persi anche quella luce che credevo di avere [Luc 8, 18], non riuscendo a riconoscerti. E come avrei potuto vedere o conoscere te stesso, chi mai tu eri, tu di cui non ero stato capace di vedere, comprendere, capire nemmeno lo splendore del volto?
Da quel momento mi recavo più di frequente alla fonte stessa e tu, privo come sei di ogni superbia, non disdegnavi di scendere, anzi, venendomi accanto e prendendomi prima la testa, me la immergevi nelle acque e mi facevi vedere più pura la luce del tuo volto [Sal 4, 7; 89 (88), 16]. Ma subito volavi via, non permettendomi di capire chi eri, tu che facevi ciò, da dove venivi, dove te ne andavi: neppure questo mi concedevi. E così mentre tu andavi e venivi per un certo periodo, a poco a poco mi apparivi sempre più, mi inondavi con le acque e mi facevi la grazia di vedere una luce più pura e più grande.
Dopo aver fatto ciò per un certo tempo, mi rendesti degno di vedere una cosa terribile, un mistero. Mentre tu mi venivi accanto e, come mi sembrava, mi lavavi e inondavi con l’acqua e spesso mi immergevi completamente in essa, contemplai, mescolati alle acque, i bagliori che mi avvolgevano di luce e i raggi del tuo volto, vedendomi lavato con un’acqua luminosa. E dove era, da dove veniva, chi era colui che me la dava, non lo sapevo; soltanto, lavandomi ero felice, e intanto crescevo nella fede, venivo reso alato dalla speranza e salivo fino al cielo.
Quegli imbroglioni che mi suggerivano parole di inganno e di menzogna, li odiavo profondamente, e insieme provavo pietà per il loro errore e non m’incontravo più con loro nemmeno per una visita o una conversazione, anzi, fuggivo a tutta forza anche il danno che poteva provenirmi dalla loro vista; invece il mio collaboratore e soccorritore, il tuo santo discepolo e apostolo, lo veneravo, lo onoravo, lo amavo come te stesso, mio creatore; cadevo ai suoi piedi notte e giorno e lo supplicavo: « Se lo puoi, vieni in mio aiuto! » [Mar 9,22], e avevo fiducia piena che quel che voleva, lo poteva presso di te.
Continuando così, dunque, per un discreto periodo per merito della tua grazia, vidi di nuovo un altro tremendo mistero. Mentre risalivi verso i cieli, mi prendesti e mi portasti con te, se nel corpo, non lo so, se fuori del corpo [2 Cor. 12, 2], lo sai solo tu, che hai compiuto tutto questo. Dopo aver passato là un’ora con te, sbigottito per la grandezza della gloria – di chi fosse e di che specie, non so – e stupefatto per la smisurata altezza, fui tutto preso dal tremore. Poi di nuovo mi lasciasti solo sulla terra, dove stavo prima, e mi ritrovai a piangere e a meravigliarmi della mia miseria.
Quindi, non molto tempo dopo, mentre io ero giù in basso, i cieli si aprirono in alto [Atti 7, 56] e tu ti degnasti di mostrarmi il tuo volto, come un sole senza forma. Chi mai tu fossi, neppure così mi concedesti di conoscere – e come avrei potuto, giacché tu non mi parlasti? -, ma ti nascondesti subito, e io andavo attorno cercando te, che non conoscevo, e bramavo vedere la tua forma e conoscere consapevolmente chi eri. Perciò, per la grande violenza infuocata del tuo amore piangevo continuamente, non conoscendo chi sei tu, che dal non essere mi hai tratto all’essere, mi hai tolto dal fango e ti sei fatto per me tutto quello che ho detto.
Così dunque spesso mi ti sei mostrato e ancora spesso ti sei nascosto senza aver parlato, sottraendoti alla mia vista: e io, vedendomi spesso ancora circondato dai bagliori e dallo splendore del tuo volto, come prima nell’acqua, e non potendo assolutamente afferrarli, cercavo di ricordarmi dove mai ti avevo visto in alto, e, pensando scioccamente che tu fossi un altro, cercavo ancora, tra le lacrime, di vederti. Mi tormentavo dunque in questo modo in grande tristezza, afflizione e angustia [Rom 2, 9; 8, 33], dimentico di me stesso, di tutto quanto il mondo e delle cose del mondo [1 Giov 2, 13], e non pensavo nemmeno a un’ombra né ad alcun’ altra cosa che mai possa essere visibile, quando tu, che sei a tutti invisibile, impalpabile e inafferrabile, mi apparisti; mi sembrava che tu mi purificassi la mente, mi dilatassi lo sguardo dell’anima e mi facessi vedere ancor di più la tua gloria, e che tu stesso crescessi e, risplendendo, ti dilatassi, e mentre le tenebre si ritiravano, capivo che eri tu che avanzavi e ti avvicinavi, come spesso ci capita di sperimentare con le cose sensibili. Quando la luna brilla e le nuvole, per così dire, camminano, la luna si vede e sembra correre velocissima, mentre non accelera affatto la corsa solita e non muta il suo percorso iniziale. Così, dunque, Padrone, mi sembrava che tu, l’immobile, ti avvicinassi e, immutabile, diventassi più grande e, senza forma, prendessi forma.
Mi accadde quel che accade a un cieco che recuperi la vista a poco a poco e si renda conto della figura tipica dell’uomo esaminando un po’ alla volta come è fatto [Mar. 8, 24-23]; non è la figura che cambia o muta rispetto alla capacità visiva, ma piuttosto la vista dei suoi occhi; purificandosi, vede come è fatta la figura: tutta la sua forma somigliante, per così dire, s’imprime nella sua vista e, attraverso di essa, giunge, si plasma e s’incide come su un quadro nella facoltà razionale e nella memoria dell’anima. Così mi apparisti anche tu, purificando completamente con la limpida luce dello Spirito Santo la mia mente. E mentre essa vedeva in modo più limpido e più puro, mi sembrava che tu stesso uscissi da qualche parte e apparissi più splendente; allora mi facesti anche vedere la figura di una forma senza forma e mi portasti fuori del mondo – crederei di dire anche: fuori del corpo, ma di questo non mi concedesti di rendermi conto con precisione [2 Cor. 12, 2-3]. Risplendesti dunque straordinariamente e, a mio parere, ti lasciasti vedere interamente da me che tutto intero ti vedevo distintamente. Ti dissi: « Signore, chi sei mai? », e allora per la prima volta degnasti della tua voce me, figliol prodigo, e mi rivolgesti dolcemente la parola, mentre ero fuori di me, stupefatto e tremante, e cercavo di riflettere dicendomi: « Che vuol mai dire questa gloria e la grandezza di questo splendore? »

« Io sono il Dio che per te si è fatto uomo, e poiché mi hai cercato con tutta l’anima, ecco, d’ora in poi sarai mio fratello [Mat 12, 49-50; Mar 3, 34-35; Luc 8, 21], mio coerede [Rom 8, 17] e mio amico [Giov. 15, 14-15] .

Colpito da queste parole e prostrato nell’anima, con tutte le mie forze disperse, ti risposi: « Chi sono io, Padrone, che cosa ho fatto, misero e sventurato che sono, perché tu mi rendessi degno di tali beni e mi facessi compartecipe e coerede di una tale gloria? » Pensavo che questa gloria e questa gioia fossero al di sopra della mente; ma tu, il Padrone, come un amico a colloquio con l’amico [Es 33, li], per mezzo del tuo Spirito che parla in me, mi dicesti: « Questi doni te li ho fatti solo per il tuo proponimento e la tua buona volontà e fede, e ancora te li farò. Che altro hai, infatti, o che altro hai mai avuto, creato nudo da me [Giob 1, 21], perché io potessi prendere quel che avevi e darti in cambio questo? Se non ti sciogli dalla carne, non vedrai la perfezione e non sarai capace di goderne adeguatamente ». « E che cosa c’è – dissi – che sia più grande o più splendido di questo? Mi basta intanto essere così, anche dopo la morte ». « Come è grande la tua pusillanimità – mi dicesti – nell’accontentarti di questo! Questi doni, in confronto a quelli futuri, sono uguali a un cielo raffigurato sulla carta, che si può prendere in mano: quanto esso è inferiore al cielo vero, tanto più incomparabilmente la gloria futura ti si rivelerà superiore a quella che vedi adesso [Rom. 8, 18] ».
Dopo queste parole tacesti e a poco a poco, dolce e buon Padrone, ti nascondesti ai miei occhi. Ero io che mi allontanavo da te? Eri tu che te ne andavi via da me? Non so. Allora ritornai tutto di nuovo in me stesso, credendo di venire da qualche parte, e rientrai nella mia prima tenda. Sicché, nel ricordo della bellezza della tua gloria e delle tue parole, mentre camminavo, sedevo, mangiavo, bevevo, pregavo, io piangevo e vivevo in una gioia inesprimibile, perché avevo riconosciuto te, creatore di tutto. E come avrei potuto non essere felice? Ma cadevo di nuovo nella tristezza e bramavo rivederti così.
Una volta mi recai a baciare l’immacolata icona della tua Genitrice e mi prostrai davanti ad essa; ma prima che mi rialzassi, tu ti mostrasti a me all’interno del mio misero cuore, rendendomelo come di luce, e allora conobbi di possederti in me coscientemente. Da allora ti amavo non per il ricordo di tali grazie, ricordandomi di te e di quanto è intorno a te, ma credevo di avere in me veramente te stesso, l’amore personificato. Tu sei davvero l’amore sussistente, o Dio! [1 Giov 4,8.16].
La speranza dunque, piantata nella fede e innaffiata in essa dalla penitenza e dalle lacrime, e poi illuminata dalla tua luce, mise radici e cresceva bene. Poi sei venuto tu stesso, l’esperto artista e creatore, con la spada delle prove, cioè l’umiltà, potando i rami superflui dei pensieri che si erano levati verso l’alto, ed hai innestato il tuo santo amore nella sola speranza, come nell’unica radice di un albero [Giov 15, 1-2; Rom 11, 17-24]. Adesso la vedo crescere ogni giorno, e sempre essa mi parla, anzi, attraverso di essa sei tu che mi ammaestri e mi illumini: come se già mi trovassi oltre ogni fede e speranza, sono pieno di quella felicità di cui parla Paolo proclamando: « Quello che si vede, che bisogno c’è di sperarlo? » [Rom. 8, 24]. Se ho te, che cosa posso sperare di più?
Mi dicesti poi ancora: « Ascolta! Il sole tu lo vedi nelle acque, ma non lo vedi come è in sé e per sé, tanto più se guardi in basso: allo stesso modo, considera anche quanto avviene dentro di te. Rassicurati, e cerca sempre di scorgere me dentro di te in modo puro e limpido, come il sole nelle acque pure; e allora poi, come ti ho detto, sarai reso degno di vedermi così anche dopo la morte. Se no, tutto il giro di queste tue opere, fatiche e parole non ti gioverà a niente, anzi, ti condanneranno ancora di più e ti procureranno maggiore afflizione, perché, come senti dire, “i potenti saranno esaminati potentemente ” [Sap 6, 6]. Infatti, per chi è povero fin dalla nascita la povertà non è causa di vergogna e non lo rattrista tanto come accade invece a chi è stato ricco, glorificato, in elevata posizione [Sal 37 (36), 20] e in intimità con l’imperatore terreno e poi è decaduto da tutti questi privilegi e si è visto ridotto in completa miseria – sebbene le cose non stiano allo stesso modo nelle condizioni terrene e visibili e in quelle spirituali e invisibili. Infatti, a coloro che per qualche motivo decadono dall’amicizia e dal servizio dell’imperatore terreno è pur sempre possibile rimanere padroni delle loro sostanze, goderne e vivere; invece se uno decade dal mio amore e dalla mia amicizia, non può più assolutamente vivere – la sua vita sono io! [Giov. 11, 25; 14, 6], ma è denudato subito di tutto e viene consegnato prigioniero ai miei e suoi nemici: essi lo prendono e, in cambio dell’affetto e dell’amore che prima nutriva verso di me, lo attaccano con rabbia tanto più folle, punendolo, deridendolo e schernendolo ».
Sì, santissimo Re, è proprio così! Anch’io credo a te, mio Dio; mi prostro a te e ti supplico: custodisci me, peccatore indegno di cui hai avuto pietà, e rafforza con la tua potenza il germoglio del tuo amore, che hai innestato nell’albero della mia speranza. Che esso non sia scosso dai venti, non sia spezzato dalla tempesta, non sia sradicato da qualche nemico, non sia bruciato dall’ardore della negligenza, non sia disseccato dalla pigrizia e dall’incostanza, non sia distrutto dalla vanità. Tu, che mi hai fatto questo dono e lo hai prodotto in me, lo sai: per causa sua sono privo di aiuto da parte di ogni uomo; il mio collaboratore e soccorritore, il tuo apostolo, lo hai separato fisicamente da me, come tu hai voluto. Tu conosci la mia debolezza, tu sai la mia miseria e la mia totale impotenza. Perciò d’ora in poi abbi ancor più misericordia di me, Signore dalla grande misericordia. Mi prostro a te con tutto il cuore, non lasciarmi in balia della mia volontà, tu che mi hai fatto tante grazie, ma conferma la mia anima nel tuo amore; fà sì che il tuo amore ponga in essa salde radici, perché secondo la tua promessa immacolata, santa e verace Tu possa essere in me e io in te [Giov 14, 20]. Possa io essere protetto dal tuo amore e a mia volta proteggerlo e custodirlo dentro di me; possa tu, Padrone, vedermi in esso, e io essere fatto degno di vederti attraverso di esso, ora come in uno specchio e in enigma, come hai detto [1 Cor. 13, 12], e poi allora in tutto il tuo amore e interamente, tu che sei l’Amore e così ti sei degnato di essere chiamato [1 Giov 4, 8.16], perché a te si addice ogni rendimento di grazie, potenza, onore e adorazione, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, ora e sempre e per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.

Testo greco in: Symèon le Nouveau Théologien, Catécheses. Introduction, texte critique et notes par Mgr. B. KRIVOCHEINE, traduction par J. PARAMELLE, s. j., III (SC, 113), Paris 1965, pp. 330-56

Testo in italiano pubblicato già su vari siti internet