IN RICORDO DI PADRE SCALFI: UN SUO SCRITTO DEDICATO AD ALEKSANDR MEN’

Esattamente un mese fa, il 25 dicembre 2016, nella solennità del Santo Natale, si spegneva, a Villa Ambiveri di Seriate (Bergamo), padre Romano Scalfi, fondatore e “anima” del Centro Russia Cristiana. Nel trigesimo della scomparsa, pubblichiamo, dal sito del Centro culturale “Gli Scritti” (www.gliscritti.it), un testo che padre Romano aveva dedicato a uno dei sacerdoti russi da lui più amati, padre Aleksandr Men’, da lui conosciuto attraverso un’intensa frequentazione e assassinato a Mosca nel 1990. L’articolo venne pubblicato nel 1990, in occasione del ventennale dell’uccisione del sacerdote russo.

di padre Romano Scalfi

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Una grande umanità che si alimenta nella fede e una grande fede che si incarna in una umanità affascinante. Questo anzitutto mi sembra di poter dire di padre Aleksandr Men’. “In Cristo, come osserva Clement, si apre l’orizzonte infinito di una razionalità che si poggia non soltanto sulla mente, ma coinvolge la totalità della vita”. Conosco ciò che diventa in me vita, hanno ripetuto i Padri fin dal secolo IV. Padre Aleksandr è la testimonianza di questa conoscenza che, imparentata con la fede, è capace di commuovere il cuore e diventare affascinante. E’ questa unità profonda fra umanità e fede che rende la persona di padre Aleksandr viva e attuale per i nostri giorni sia per la Russia che per l’Italia e tutto il mondo, in crisi sia di umanità che di fede. La storia della Chiesa è sempre stata tentata di dualismo, anche la storia del cristianesimo in Italia. Pensiamo al ’68: l’impegno sociale che dominava su tutto e Cristo ridotto a sostegno ideologico del proprio schema umanistico e, all’opposto una certa scelta religiosa, che, per eccesso di pietà spiritualistica, esclude alla fede l’accesso alla socialità, o almeno ad una parte di essa. In ambedue i casi a perderci sono simultaneamente sia l’umanesimo come la fede. L’umanesimo, sganciato dal suo naturale fondamento tende a diventare prima utopico e poi nichilista e la fede, ridotta a sostegno di un’ideologia, ha poca possibilità di tenuta.

“Cristo ci obbliga a sentire Dio vicino” – amava ripetere padre Men’. “Colui che è presente in ogni luogo ed ogni cosa porta a compimento”, come prega la Divina Liturgia bizantina. Cristo sempre presente, a suo modo, anche nelle contraddizioni dolorose della vita. La sua vocazione al sacerdozio gli appare evidente a 12 anni, quando una sera, sul cielo di Mosca vede apparire illuminata una gigantesca immagine di Stalin. Gli appare come l’incarnazione dell’anticristo, che intende dominare il mondo. Ma accanto a questa figura diabolica padre Men’ intravede il volto luminoso di Cristo che lo invita a testimoniarlo con tutta la sua vita. A 14 anni incomincia a pensare al suo primo libro “Gesù maestro di Nazaret” (ora tradotto anche italiano). Era innamorato di Cristo. Per questo interpretava tutto alla luce del suo volto; anche il volto demoniaco di Stalin, l’anticristo, come lui stesso lo definisce. Per lo stesso motivo diceva che non si doveva dare troppa importanza al nemico. Cristo doveva essere preminente a tutto e a tutti. Ironicamente annotava che i nemici del popolo, la borghesia, il capitalismo sono stati inventati dal partito per impedire al popolo di pensare ai propri diritti. Ma anche il cristiano, ogni uomo, scoperto il nemico da combattere, dimentica il male che domina dentro di sé, si esaurisce nella critica e dimentica la positività che, con Cristo, domina sul mondo. Richiamandosi a Solov’ev, padre Men’ sosteneva che Cristo doveva essere posto al centro della vita e non relegato in un angolo. L’autonomia delle singole realtà terrestri non può mettere in ombra la signoria del Salvatore, che solo è in grado di salvare e fa fiorire ogni cosa.

Certamente padre Aleksandr è anzitutto un gigante di fede, ma un gigante convinto che la fede, la pietas ad omnia utilis est. La fede è ingrediente sostanziale di tutti gli aspetti della vita. Un ingrediente che dà sapore alla vita. Per lui la vita, pur nella sua tragicità, era una festa, non perché fosse in qualche modo contaminato dall’ingenuo e pericoloso utopismo della dottrina comunista, ma perché sperimentava che in Cristo ogni situazione poteva diventare luminosa, perfino il volto diabolico di Stalin. Il detto evangelico ‘rinnega te stesso’ non significa – seguo il commento di padre Aleksandr – distruggi te stesso, ma apriti ad un amore più grande che ti farà più felice, ti farà partecipare fin da questa terra alla vita del cielo’. Come si fa – si chiedeva sempre padre Men’- a non amare questo mistero che è la vita? Anche la morte non può far paura, perché in Dio ci sono soltanto uomini vivi. “Ora et labora et noli contristari” (Schuster). Prega, lavora e non piangerti addosso. Non indulgere alle lamentele; non rattristare te stesso e non annoiare gli altri con i tuoi lai. “La Chiesa è laboratorio di risurrezione”. Sapeva affascinare sia i giovani che i vecchi, gli intellettuali come la semplice gente del popolo, perché per lui, nonostante tutto, la vita era affascinante. E non si può dire che la sua vita sia stata sempre tranquilla. Non costringeva nessuno, si limitava a proporre, a presentare la gioia e la bellezza della vita cristiana. “Dio ci ama – ripeteva – tutto è gioia, anche il sacrificio’”.

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Un suo figlio spirituale recentemente ha detto: “Se non fosse stato ucciso, se avesse potuto parlare alla televisione per un ora alla settimana, oggi la Russia sarebbe molto migliore. Ci sembrava che fosse stato fatto su misura per essere il missionario della nuova Russia.” Certamente il suo martirio non ha interrotto la sua missione. Basti pensare che i suoi libri stampati in Russia (lui non ebbe la fortuna di vederne una sola copia) a tutt’oggi superano i due milioni di copie. Non ha mai voluto schierarsi apertamente con i dissidenti, sia religiosi che umanistici, non perché non ne condividesse le idee e gli impegni (fu amico personale di Zheludkov e di Jakunin e di molti altri, più di lui impegnati in questo settore), ma perché era tutto impegnato a comunicare Cristo e creare piccole comunità cristiane, convinto che il diffondersi di una fede ecclesiale espressa in comunità clandestine, fosse il modo migliore per preparare il terreno anche ad un autentico cambiamento sociale.

Ricordo, due anni prima della caduta del comunismo, ebbi l’occasione di incontrare a Mosca padre Aleksandr Men’. Ad un certo punto del nostro dialogo, il padre, quasi fosse stato illuminato, improvvisamente mi disse: “Il comunismo sta per cadere. Culturalmente è morto. L’esperienza gli è stata fatale. La cultura di quelli che la pensano diversamente (come erano chiamati dal potere i dissidenti) ha vinto. Il comunismo ha le ore contate”. Lo guardai in faccia più meravigliato che convinto (questi santi russi, pensai, senza un po’ di utopismo non sono capaci di vivere). Il mio fu un giudizio cattivo e superficiale. Era una grande fede che gli donava una straordinaria capacità di intuizione, di comprensione umana. Fra le migliaia di documenti del samizdat sottoscritti dai credenti che protestavano per la persecuzione contro la religione, non troviamo la firma di padre Aleksandr. Non ha mai voluto compromettersi, non perché condannasse il dissenso, ma perché era fin troppo compromesso con la sua missione: annunciare Cristo, totale salvezza dell’uomo. D’altra parte nessun compromesso con la falsità: nessun compromesso con il potere per garantirsi una benevola tolleranza. La valigetta con l’indispensabile in caso venisse arrestato dalla polizia era sempre pronta. Ogni notte poteva essere quella buona per il KGB. Nessun compromesso neppure con quella corrente del nazionalismo ortodosso che consigliava di non avere rapporti amichevoli con i cattolici.

Qui sono obbligato a parlare dell’ecumenismo di padre Men’. Ci sarebbe da scrivere un intero libro. Mi limito a schematizzare il suo pensiero, del tutto consapevole che si tratta di una grave e disinvolta riduzione del suo pensiero, della sua vita perché lui l’ecumenismo ce l’aveva nel cuore. “Il problema dell’ecumenismo – scrive padre Aleksandr – non è una moda del secolo XX, ma una esigenza irrinunciabile che si pone a ciascuno di noi; un problema che si pone a tutti i sacerdoti e a tutti i laici. Questo problema è sempre attuale e di vitale importanza”. Per affermare questo in Russia venti anni fa occorreva coraggio, ma soprattutto una grande fede. L’ecumenismo di Padre Men’ nasce da un profondo amore alla sua Chiesa, al cuore della Chiesa, il cuore di Cristo che la santifica con il suo amore. È per questo che per capire la Chiesa occorre saper pregare. “Non bisogna mai smettere di bussare alla porta: è l’inizio di ogni rapporto sano. Il problema primo dell’ecumenismo è un’autentica, ampia, profonda spiritualità”. Il peccato dell’uomo non riesce ad eliminare la santità della Chiesa. “I peccati non sono prerogativa delle confessioni cristiane, bensì degli uomini”. La santità della Chiesa è fondata in Cristo. I nostri peccati purtroppo sono capaci di sfigurare l’icona di Cristo. Le divisioni nascono e si rafforzano quando non si parte dal cuore della Chiesa, ma da ciò che non le è essenziale: la cultura, la politica, il rito, la struttura giuridica. “Tutte le divisioni hanno un’origine umana, mentre agli occhi di Dio siamo tutti suoi figli, redenti dal sangue di Cristo”.

“La fede cristiana è molto di più di qualsiasi cultura e va molto di più in profondità di qualsiasi tradizione. Questo però non deve indurre a cancellare le differenze culturali… Ogni tentativo di omologare è sbagliato, per il semplice motivo che il cristianesimo deve esprimersi in forme vive. Ogni cultura ha un proprio volto individuale”. Il cristianesimo è simile ad un monte: ai piedi si trovano i magnifichi fiori della steppa, poi prati verdeggianti di messe, in seguito foreste di betulle, di pini, di abeti, in alto i rododendri e le stelle alpine…
“L’omologazione vorrebbe ridurre l’irrepetibile bellezza del volto storico della Chiesa”. Il pluralismo non annulla il principio dell’unità; al contrario quanto più ricca e varia è la vita della Chiesa, tanto più urgente si fa la necessità di un perno unificante. La tradizione diventa arido tradizionalismo ed il progresso aperturismo mondano quando manca ‘uno scheletro’ cioè una fede robusta. “Le radici per se sono una cosa bella, ma possono anche essere pericolose. Infatti furono proprio le radici ad impedire agli ebrei di accogliere Cristo. Non si tratta di sradicare le radici, ma di alimentare la fede perché possa essere creativa”.
Anche con i musulmani (a Mosca ci sono più di due milioni di musulmani) era disposto ad un confronto partendo dalla fede comune in un unico Dio. “Non di rado – ripeteva – la fede diventa una scusa per nascondere piani che non hanno nulla a che fare con la religione. La fede autentica si giudica dalle sue vette più alte”, nelle sue espressioni più pure. Non tanto un dialogo su valori umanistici comuni, quanto un dialogo ed un confronto sulla fede, sul senso religioso. La passione per l’umano, che in lui appariva del tutto semplice e connaturale, lo rendeva amico di ognuno che conservasse un minimo di umanità. D’altra parte il suo umanesimo era talmente coinvolto con la fede che molti atei inizialmente attirati dall’ampiezza delle sue vedute, dalla capacità di dar ragione alla sua fede, incontratisi con lui finivano per domandargli il battesimo. Anche il dialogo per lui era missione prima di essere un tentativo di accordo. Ma la missione per lui non aveva la forma di propaganda e neppure una disquisizione intellettuale. Secondo la migliore tradizione ortodossa sapeva parlare alla mente interessando il cuore. Perché questa era la sua fede: esperienza di una vita data anima e corpo a Cristo. Questa sua posizione unitaria gli dava una grande capacità di conoscenza sia delle persone come della realtà in genere, al punto di essere profeta in mezzo al suo popolo.

Accenno ad una sua ultima triste profezia che abbiamo udito dalle sue labbra pochi giorni prima della sua morte: Era ospite da noi a Seriate. Dopo la salita al potere di Gorbaciov veniva ogni anno da noi anche perché a Bergamo abitava sua figlia con la sua famiglia. Nel salutarci prima della partenza, improvvisamente, lui solitamente sereno e gioviale, si fece serio e ci disse: ‘Non ci vedremo più…’ Ma perché? ‘Sento che il Signore mi chiama’. Dopo pochi giorni veniva assassinato a Mosca il 9 settembre 1990 accanto alla sua casa, sulla strada che lo conduceva alla Chiesa.