L’ICONA NEL PENSIERO RUSSO DEL XX SECOLO: PER CAPIRE LA “RISCOPERTA” (7)

Dalle pagine web di iconecristiane.it, sito cattolico per lo sviluppo dell’iconografia in Italia, proponiamo all’attenzione degli amici de “I sentieri dell’icona”, in parti successive, lo studio dal titolo «L’icona nel pensiero russo» a cura di Pietro Galignani. Si tratta di una versione aggiornata dell’articolo pubblicato nel gennaio-febbraio 1988 sul n. 55 di “Servitium – Quaderni di spiritualità”, Sotto il Monte (BG), già riportato su www.larici.it.

L’icona nel pensiero russo del XX secolo

a cura di Pietro Galignani – Milano, giugno 2016

La rappresentazione della Gloria

Nell’ambito dello sviluppo della teologia russa in Occidente, che si è affermata a Parigi nell’Istituto san Sergio,che è ancora luogo della sua fioritura e del suo dispiegamento in un ambiente ecumenicamente aperto e attento alle esperienze teologiche dell’Occidente, particolarmente interessante è il contributo di Pavel Evdokimov alla teologia dell’icona. Nella sua opera mostra una conoscenza della filosofia e teologia occidentale diversa da quella dei teologi russi dell’inizio del secolo. In questa nuova atmosfera culturale la meditazione sulla tradizione russa acquista accenti nuovi sfruttando anche le ricerche che gli autori cattolici hanno operato in campo biblico e patristico. Si può dire che l’opera di Evdokimov sia una meditazione delle intuizioni dei grandi maestri dell’inizio del secolo, nella determinazione di far risaltare la peculiarità della tradizione russa nell’ambiente culturale e teologico francese.
In questa prospettiva vanno considerate le sue opere che sono da una parte la presentazione dei temi fondamentali dell’ortodossia di tradizione russa al mondo cattolico e protestante e nello stesso tempo un contributo per il dialogo ecumenico. Affrontando il tema dell’icona egli si mantiene su un livello squisitamente teologico interpretando il concetto della bellezza e il significato dell’icona in un contesto profondamente biblico e patristico. La linea sobria del suo pensiero trae argomento e consistenza proprio nel continuo riferimento alla Scrittura e all’opera dei Padri i quali, pur movendosi in un contesto platonico, superano la cultura ellenistica e la trasformano in uno strumento espressivo della rivelazione meditata e vissuta. Se rimane fondamentale la concezione della bellezza come splendore del vero, essa però viene assunta a indicare la manifestazione di Dio Trinità.
Il dogma trinitario esplicita: se il Figlio è la Parola che il Padre pronuncia e che si fa carne, lo Spirito la manifesta, la rende udibile e ce la fa ascoltare nel vangelo, ma lui resta nascosto, misterioso, silenzioso… In rapporto al Verbo, il vangelo dello Spirito santo è visivo, contemplativo.[23]
Se dunque la bellezza è la manifestazione della Trinità, è la luce divina che si dona in se stessa o attraverso le forme di questo mondo, è pur sempre nel Cristo che avviene la pienezza di questa manifestazione, cosicché si può dire che:
La bellezza divina è la comunione assai concreta della natura creata dell’uomo intero con l’increato delle energie divine.[24]
Essa è la gloria di Dio, è il mistero dell’ottavo giorno, ma che è già inizialmente presente nei sacramenti e nell’esperienza dei santi. Si può dunque dire che la luce della creazione, quella del Tabor, della pentecoste, dei sacramenti e della parusia è la medesima luce divina. La strada per incontrarla passa attraverso la Chiesa perché proprio la Chiesa è la preparazione e l’anticipo dei nuovi cieli e della nuova terra, cioè del Regno di Dio che è l’uomo e il cosmo completamente trasformati dalla luce che è Dio che si manifesta e si fa presente. La faccia luminosa di Dio rivolta verso gli uomini è quella del Cristo Trasfigurato:
L’armonia delle verità divine è personalizzata in Cristo, creduto ma anche veduto e contemplato, perché l’umanità deificata del Verbo è quella “fiaccola di vetro” che irradia dalla luce trinitaria. L’epifania, il Tabor, la Risurrezione, la Pentecoste, sono le irruzioni folgorati che si lasciano vedere. Ma in queste rivelazioni è l’Oggetto che determina interamente il soggetto. La luce è l’oggetto della visione e ne è anche l’organo. La Trasfigurazione del Signore, di fatto, era quella degli apostoli, per un momento i loro occhi aperti potevano vedere, al di là della sua Kenosi, la Gloria del Signore.[25] E l’esperienza vissuta dagli apostoli può essere vissuta nella Chiesa da ogni uomo attraverso la dimensione sensibile dei sacramenti, della liturgia, dell’icona e dell’esperienza vissuta di Dio. L’uomo infatti è chiamato all’esperienza del divino nella sua integrale totalità, non solo lo spirito ma anche il corpo ha l’esperienza delle cose divine. E in questo modo l’icona nel contesto della vita della Chiesa e nella prospettiva della vita religiosa inizia alla visione di Dio nella luce dell’ottavo giorno. L’icona dunque è uno degli elementi, in cui è strutturata la tradizione e vive completamente nel suo ambito ed è incomprensibile al di fuori di essa. In questo senso, “L’icona è uno dei sacramentali, più precisamente quello della presenza personale”[26].
L’iconografia diviene ben presto una parte organica della tradizione e costituisce una vera teologia visuale. Essa sboccia facilmente nel platonismo della patristica orientale, nella sua filosofia della trascendenza perché questa implica una simbolica riconduzione del sensibile alle sue radici celesti. Il simbolo nello spirito dei Padri della Chiesa e secondo la tradizione liturgica contiene in sé la presenza di ciò che simbolizza. Esso adempie la funzione comprensiva del “senso” e nello stesso tempo è ricettacolo espressivo della presenza. La conoscenza simbolica, che per sua natura è sempre indiretta, fa appello alla facoltà contemplativa dello spirito, all’immaginazione evocatrice e invocatrice, al fine di decifrare il senso e di cogliere la presenza, figurata, simbolizzata, ma reale del trascendente. Proprio per la sua funzione liturgica l’icona supera la dimensione estetica e il suo immanentismo:
Essa suscita non l’emozione ma il senso mistico, il mysterium tremendum… la parusia del Trascendente di cui l’icona attesta la presenza. L’artista scompare dietro la tradizione che parla, le icone non sono quasi mai sottoscritte; l’opera d’arte lascia posto a una teofania; ogni spettatore alla ricerca di uno spettacolo, qui si trova fuori posto; l’uomo, colto da una rivelazione folgorante, si prostra in atto di adorazione e di preghiera.[27]
La fusione dell’elemento artistico e della contemplazione mistica inaugura una teologia visiva:
Lo stile ecclesiale filtra ogni visione soggettiva, perché è la Chiesa che vede l’oggetto della fede, i suoi misteri. Se l’architettura sacra del tempio ordina lo spazio, e il Memoriale liturgico ordina il tempo, l’icona fa fare esperienze sull’invisibile, sulla “forma interiore” dell’essere e questa interiorità, ancora una volta, dipende dall’illuminazione, dalla categoria taborica.[28] Ciò apre la strada a concepire l’icona come via all’unione mistica con Dio, essa diventa un momento dell’ascesi verso l’incontro deificante.
L’icona è una rappresentazione simbolico-ipostatica che invita a trascendere il simbolo, a comunicare all’ipostasi, per partecipare all’indescrivibile. Essa è una via attraverso la quale si deve passare per superarla, non si tratta di sopprimerla, ma di scoprire la sua dimensione trascendente. Essa incontra l’ipostasi e introduce all’esperienza della Presenza spogliata di forme empiriche.[29] Evdokimov si rifà chiaramente alla teologia del settimo concilio anche se riconosce che essa più che approfondire la rilevanza teologica dell’icona afferma la sua dignità. Ha stabilito il culto dell’icona senza proporre una dottrina elaborata; perciò egli tenta, sulla scorta della tradizione stessa, una elaborazione del fondamento teologico dell’icona stessa.
Egli sottolinea prevalentemente la dimensione liturgica dell’icona come momento rivelativo dell’esperienza della Chiesa e proprio per questo motivo ricerca nella Scrittura e nella Tradizione della Chiesa il significato di questa espressione. La sua comprensione dell’icona è molto vicina alla concezione espressa nel settimo concilio ecumenico, arricchita dalla esperienza e dalla teologia di Gregorio Palamas. Dio che è vita e luce si fa presente in Cristo, inviato dal Padre e manifestato dallo Spirito santo. La Chiesa vive nel Cristo e lo rende presente nel tempo e nello spazio. La coscienza che essa ha di essere radicata nel mistero di Dio viene espressa nel tempo dalle struttura liturgiche che conducono il fedele a sperimentare il mistero di Dio e a essere riempito della sua presenza.
Questa deificazione di tutto l’uomo, spirito e corpo, intelletto e sensibilità passa anche attraverso l’icona, la quale proprio perché è radicata nel mistero della Chiesa esprime in immagini la sua esperienza. In questo senso i Padri della Chiesa, proprio in quanto costruttori della esperienza ecclesiale, sono coloro che determinano il canone iconografico. Il compito dell’artista allora è simile a quello dell’evangelista, quello cioè di esprimere attraverso la propria personalità non un annuncio personale bensì l’esperienza ecclesiale. È per questo che l’iconografo deve immettere la sua capacità artistica dentro la viva corrente della coscienza della Chiesa, fare dilatare la propria coscienza perché batta all’unisono con quella ecclesiale, immergersi sempre più profondamente nel mistero di Dio nella Chiesa e attraverso la sua opera annunciare ciò che la Chiesa vive, sperimenta e vede perché ogni fedele sia aiutato a entrare in comunione con Dio, a essere deificato dalla sua presenza energetica.
(7-continua)

Note
[23] P. Evdokimov, La Teologia della Bellezza, Ed. Paoline, Roma, 1971, p. 13
[24] Ivi, p. 42
[25] Ivi, p. 38
[26] Ivi, p. 212
[27] Ivi, p. 214
[28] Ivi, p. 223
[29] Ivi, p. 272