“COS’È L’ICONA PER I CRISTIANI?”: IL PENSIERO DI PADRE PAVEL FLORENSKIJ

Il 9 novembre 2016, sulle pagine del frequentato blog misericordiaiovoglio.altervista.org, fra Giancarlo Fano ha pubblicato un’utile riflessione con un titolo quasi, e bonariamente, “provocatorio”: “Cosa rappresenta l’icona per il cristiano?”. Si tratta di una meditazione che, attingendo allo straordinario patrimonio filosofico e teologico frutto del pensiero di padre Pavel Florenskij, può aiutare ad apprezzare, ed amare, ancor di più la millenaria tradizione dell’iconografia. Proponiamo dunque il testo per gli amici de “I sentieri dell’icona”.

Davvero Florenskij credeva, al cospetto di un’icona della Madonna, di trovarsi di fronte non a una immagine della Vergine Maria ma alla Vergine Maria in carne e ossa? Se così fosse, egli si sarebbe macchiato di uno dei peccati più gravi che si potrebbe mai immaginare per un cristiano: l’idolatria. Neanche la chiesa slavo — ortodossa — che ha sempre rivendicato all’icona un ruolo che andava al di là della semplice funzione catechetico — didattica, attribuendole un potere rivelativo in grado di renderla un tramite diretto tra uomo e Dio — ha mai negato che essa restava comunque un tramite, per quanto privilegiato, di accesso a Dio e non Dio stesso, un transitus necessario che doveva essere attraversato, ma su cui non ci si poteva arenare. Le icone portano a Dio ma non sono Dio, ed è proprio questo ruolo di intermediarie a permettere loro di distanziarsi dall’idolo, cioè di essere immagini che non vogliono sostituirsi a Dio ma che, nel condurre a Dio, portano al di là di sé e fuori di sé, rimarcando con ciò la loro distanza dal prototipo che, nel raffigurare, si propongono di evocare. Tanto per parafrasare le parole di Teodoro Studita, che nel IX secolo dà la sistemazione più matura delle tesi iconofile uscite nel 787 dal secondo Concilio di Nicea, il rapporto tra immagine e prototipo è pari a quello tra ombra e corpo reale: se è vero che l’ombra è inscindibile dal corpo che la proietta per accompagnarlo sempre e così annunciarne la presenza, tuttavia nessuno sarebbe così folle da confondere l’ombra con il corpo di cui essa è pur angelos. Per quanto inscindibile dal prototipo, dunque, l’icona non è identica a esso: solo Cristo è e resta autentica carne del Verbo, e non le sue icone artificiali.

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Ma — si domanda Florenskij — come fa l’icona a esplicare la propria funzione intermediaria ed evocatoria senza che si supponga la presenza di Dio nell’immagine sensibile che essa ne offre? La risposta di Florenskij è che questa presenza deve essere supposta. Egli non si limita ad affermare l’inscindibilità dell’immagine dall’archetipo alla sua inseparabilità dal prototipo — che non significa necessariamente sua identità con esso come ha mostrato Teodoro Studita attraverso la similitudine ombra/corpo — egli affianca la presenza reale, e non “per così dire”, del prototipo nell’immagine, conferendo a quest’ultima pieno carattere incarnazionale e radicalizzando nel senso dell’identità quel rapporto tra icona e prototipo che l’iconofilia bizantina, poi passata alla fede greco — e slavo — ortodossa, ha sempre mantenuto in termini di semplice somiglianza, seppur non estrinseca. Ciò è ben evidente in un altro passo de Le porte regali, dove Florenskij fa subire al termine “somiglianza” uno slittamento semantico verso l’identità: allorché vicino a noi c’è una somiglianza a Dio, ci è dato dire: ecco l’immagine di Dio, ma immagine di Dio significa che c’è il Raffigurato da quell’immagine, il suo Archetipo. La Vergine di Vladimir non è dunque una semplice rappresentazione della Madonna, ma la Madonna stessa che, ben lungi dall’essere qualcosa cui semplicemente l’immagine rimanda, è a tal punto presente in quest’ultima da trasfigurarla in un’immagine di “altra natura”, facendola diventare altro da sé: non una semplice immagine, ma il divino stesso che essa rappresenta, tanto da essere esplicitamente definita da Florenskij come «un fatto di natura divina». Le parole di Florenskij, a tale proposito, sono inequivocabili: E noi diciamo ai pittori d’icone: «non siete voi che avete creato queste immagini, non siete voi ad aver rivelato queste vive idee ai nostri occhi festanti, ma sono esse stesse che si sono rivelate alla nostra contemplazione; voi vi siete limitati a rimuovere ciò che ce ne velava la luce . E ora noi non già la vostra maestria vediamo ma l’essere pienamente reale degli sguardi stessi .

L’icona non deve incagliarsi nelle interpretazioni psicologistiche, associative che la riducono a rappresentazione.essendo inscindibile dal suo archetipo, diventa non una “rappresentazione”, bensì un’onda propagatrice o una delle onde propagatrice della realtà che l’ha suscitata. l’icona, essendo manifestazione di un’essenza spirituale, è più grande di come la vuole considerare il pensiero che si attribuisce l’attestato di sobrio. Se dunque l’icona è “immagine di”, lo è nel senso di un genitivo soggettivo: essa non è rappresentazione dell’uomo su Dio, ma Dio che si rappresenta nell’uomo; se in essa appare il divino, il senso di questo apparire è quello di presentare la cosa reale e non un suo surrogato o un suo semplice riflesso sbiadito. A tale proposito risulta significativa la similitudine dell’icona come “finestra” entro cui si affaccia e si fa presente il divino: Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore. Introdotta da Florenskij a proposito Vergine di Vladimir, tale similitudine ha infatti il valore di conferire all’immagine il paradossale valore di un medium che, nel mentre rappresenta la Madonna, diventa esso stesso la Madonna, perdendo di fatto il valore di semplice medium di una realtà che la trascende. Ciò è possibile perché la stessa finestra si configura per Florenskij non come un canale di luce, ma come la luce stessa. e infatti il suo rapporto con la luce viene definito come un’”identità ontologica”, cioè di sostanza: una finestra è una finestra in quanto attraverso di essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, e non semplicemente “somigliante” alla luce, non è collegata per associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata, ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio.

Anche per la finestra, dunque, vale quanto viene detto dell’icona: se i due manufatti sono assimilabili è perché anche la finestra, in quanto veicolo di luce, è questa stessa luce. Anzi, dato che la luce è indivisibile dal sole che splende nel nostro spazio, la finestra è non solo luce ma il sole stesso, la fonte di luce per l’ambiente o la casa che essa si propone di illuminare. Come Florenskij dirà in un altro saggio dedicato non al Volto di Dio che è l’icona, ma al Nome di Dio: La finestra è qualcosa che appartiene alla casa, e un’apertura che dà la possibilità alla luce di entrare. Si può dire di fronte a una finestra: “Ecco il sole”. Ma come conciliare questo rapporto identitario con quanto Florenskij afferma subito dopo? Ma in se stessa, cioè fuori del rapporto con la luce, fuori dalla sua funzione, la finestra è come non esistente, morta e non è una finestra: astratta dalla luce, non è che legno e vetro. Per il ruolo di similitudine che riveste la finestra rispetto all’icona, tale precisazione sembrerebbe ridimensionare il carattere epifanico di quest’ultima: al pari di una finestra, che in se stessa è solo legno e vetro e non la luce o il sole che veicola, l’icona non è il divino, perché in se stessa è solo una tavola con dei colori, quasi che Florenskij volesse reintrodurre il valore di consapevole “come se” dell’immagine sacra per evitare che essa precipiti nella dimensione dell’idolo.

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In realtà è tutt’altro l’intento che muove Florenskij a precisare che la finestra, “astratta dal suo rapporto con la luce, fuori della sua funzione . non è che legno e vetro”. Il fine di questa precisazione non è riportare la finestra a ciò che essa è veramente (legno e vetro), bensì il contrario: mostrare quanto vedere nella finestra solo legno e vetro ne snaturi l’identità facendola perire come finestra, che infatti “è come non esistente, morta e non è una finestra”. Lo stesso vale per l’icona: ridurla a essere una semplice tavola di legno con dei colori significa snaturarla nella sua identità di icona, perché essa non è inerte materia priva di vita, ma materia animata dall’azione divina, non morta immagine di Dio ma vivo corpo di Dio. È pertanto in questo senso che devono essere comprese le parole di Florenskij secondo cui l’icona, come ogni pittura che voglia dirsi autentica opera d’arte, «ha lo scopo di spingere lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela percepibili coi sensi»,cioè materialmente intesi. Se l’icona riesce in questo è per configurare il legno e i colori di cui è fatta come materia transustanziata dall’azione divina. Assunta cristianamente come testimonianza dell’Incarnazione, l’icona per Florenskij non può testimoniare la verità del corpo di Cristo in quanto Dio incarnato se non allontanando da sé ogni forma di “come se” metaforico, così da convertire quella che è una semplice effige della Madonna nella Madonna in carne e ossa. Se essa è segno che vuole significare l’incarnazione, essa lo è nel senso di realizzarla concretamente, al pari del pane e del vino eucaristici. Se così non fosse, l’icona sarebbe allegoria e non simbolo florenskianamente inteso, ovvero compiuta quanto inscindibile unità di sensibile e spirituale, fenomeno e noumeno, divino e ed extradivino così come richiede la verità del cristianesimo in quanto religione del Dio incarnato, ovvero del simbolo per eccellenza. Pertanto, cercare Dio al di là delle immagini che lo rivelano e non in esse, sarebbe come voler cercare Dio al di là del Corpo di Cristo che lo ha rivelato: come non ha senso considerare il Volto e il Corpo di Cristo un “come se fosse Dio”, cioè come un qualcosa di improprio che deve essere trasceso, così non ha senso considerare le immagini come una semplice metafora di Dio. Le immagini, dunque, si rivelano non per essere trascese e abbandonate, perché esse non sono corpi morti ma vivi nel senso prettamente letterale del termine: esse sono materia che perde la propria inerte pesantezza per farsi corpo palpitante di Dio, non rappresentazione figurata di una astratta teologia ma teurgia, azione di Dio resa manifesta nella materia.