L’ARTE DELLE IMMAGINI IN ORIENTE E OCCIDENTE SECONDO LEONID USPENSKIJ

Ateo convinto e di idee rivoluzionarie, Leonid Aleksandrovic Uspenskij (1902-1987) si arruolò nell’Armata Rossa nel 1918 e combatté sul Caucaso. Fatto prigioniero continuò a combattere con i Bianchi fino alla presa di Sebastopoli da parte dei bolscevichi. Emigrato in Bulgaria, lavorò in una cava e nella miniera di carbone di Pernik fino al 1926, quando fu reclutato dai Francesi per lavorare in una fonderia a Le Creusot. Ammalatosi, recise il contratto e andò a Parigi, dove frequentò una scuola d’arte e cominciò ad avvicinarsi alla religione ortodossa e a conoscere le icone grazie all’amicizia con il monaco estone Georgij Ivanovic Krug (1909-1969) e agli insegnamenti del pittore di icone russe Fëdorov. Più tardi conobbe il filosofo e teologo Vladimir Nikolaevic Losskij (1903-1958) che gli offrì di insegnare Iconografia all’Istituto Teologico di San Dionigi, incarico che Uspenskij tenne per quarant’anni, affiancandolo, dal 1954, ai corsi di Teologia pastorale e di Teologia delle icone presso il Patriarcato di Mosca a Parigi. Tra i suoi scritti si ricordano L’Icone, vision du monde spirituel (1948), Le sens des icônes (1952, con Losskij) e Théologie de l’icône (1980) da cui è tratto il brano seguente (già pubblicato anche dal sito www.ilarici.it).

Leonid Uspenskij
Leonid Uspenskij

(…) Ecco due concezioni radicalmente differenti del destino dell’uomo, della sua vita e della sua creazione; da una parte c’è l’antropologia ortodossa concepita come perfezionamento da parte dell’uomo della sua somiglianza con Dio, somiglianza manifestata esistenzialmente, in modo creativo e vivente, che determina di conseguenza il contenuto dell’immagine ortodossa. Dall’altra parte c’è l’antropologia delle confessioni occidentali che afferma l’autonomia dell’uomo rispetto a Dio: l’uomo è sì creato a immagine di Dio ma, essendo autonomo, non corrisponde al suo Prototipo. Di qui l’incremento dell’umanesimo con la sua antropologia indipendente dalla Chiesa e scristianizzata, in cui l’uomo si distingue dalle altre creature solo all’interno di categorie naturali, come «animale ragionevole», «sociale» ecc.
Per quanto concerne la creazione artistica, già i Libri Carolini, in contraddizione col Settimo Concilio Ecumenico, la scindono dall’esperienza cattolica della Chiesa, la considerano come autonoma, e in tal modo ne determinano il futuro sviluppo. A differenza del Concilio, per i teologi di Carlo Magno era assolutamente inconcepibile, e dunque inaccettabile, ravvisare nell’icona una via di salvezza equivalente alla parola evangelica.
Se nel XII e in parte anche nel XIII secolo l’immagine occidentale manteneva un certo legame con l’antropologia cristiana, una lenta decadenza conduce l’arte a staccarsi progressivamente e definitivamente da essa. Proclamandosi autonoma, quest’arte si limita ad esprimere ciò che non supera le facoltà naturali dell’uomo. Da quando non c’è più l’irruzione dell’increato nella creatura, la grazia, in quanto effetto creato, non può far altro che migliorare le facoltà naturali umane. Quello che il cristianesimo aveva, sin dal principio, rigettato dalla sua arte – una rappresentazione illusoria del mondo visibile – diventa lo scopo da perseguire. Dal momento che l’irrappresentabile viene concepito con le stesse categorie del rappresentabile, il linguaggio del realismo simbolico scompare, e la trascendenza divina è degradata al livello delle nozioni della vita corrente. Il messaggio cristiano è minimizzato, adattato al pensiero umano. Cedendo alla tentazione della «riuscita» (il contrario del «fallimento»), nel periodo del Rinascimento l’imitazione della vita invade l’arte. Con l’infatuazione per l’antichità, al posto della trasfigurazione del corpo umano si insedia il culto della carne. La dottrina cristiana dei rapporti tra Dio e l’uomo si avvia in una direzione sbagliata e l’antropologia cristiana viene corrosa; viene soppressa la prospettiva escatologica della cooperazione dell’uomo con Dio. «Nella misura in cui l’umano si insedia nell’arte, Dio se ne allontana, tutto si rimpicciolisce e si profana, ciò che era strumento di adorazione diventa oggetto di idolatria; ciò che era una rivelazione si accontenta d’essere un’illusione, il segno del sacro si cancella, l’opera d’arte non è più che un mezzo di godimento e di conforto; l’uomo incontra se stesso e adora se stesso nella propria arte» (3). All’immagine della rivelazione si sostituisce «l’immagine di questo mondo che passa». E la menzogna dell’imitazione della natura non consiste solo nel sostituire l’immagine tradizionale con una finzione, ma anche nel mantenere i soggetti religiosi sfumando i contorni che separano il visibile dall’invisibile; così la distinzione reciproca scompare, sino a negare l’esistenza stessa di un mondo spirituale. L’immagine perde il suo significato cristiano, il che si risolve in definitiva nel suo ripudio, in un iconoclasmo dichiarato. «Così viene giustificato l’iconoclasmo della Riforma. Giustificato e relativizzato: perché non riguarda la vera arte sacra, ma la sua degenerazione nell’Occidente medievale» (4).
In quest’arte, che è un’affermazione dell’ordine cosmico attuale, vengono elaborate le leggi della prospettiva ottica o lineare, considerata non solo normale, ma come l’unico mezzo scientificamente valido di rappresentare lo spazio, così come è ritenuta «normale» la condizione visibile del mondo. Come ha dimostrato Pavel Florenskij, «quando si disgrega la stabilità religiosa della concezione del mondo, e la sacra metafisica della comune coscienza popolare viene corrosa dall’arbitrio individuale del singolo con il suo singolo punto di vista, ed inoltre con il singolo punto di vista di quel determinato momento storico, allora appare una prospettiva che ha i caratteri di questa coscienza disgregata» (5). È quanto accadde in Occidente all’epoca del Rinascimento e nel mondo ortodosso nel XVII secolo. Questa prospettiva a sua volta si corrompe nel nostro tempo, quando si corrompe la concezione del mondo umanista da cui è stata generata e, con essa, si corrompono la sua cultura e la sua arte.

3. J. Onimus, Réflexions sur l’art actuel, Parigi 1964, p. 80.
4. O. Clément, Un ouvrage important sur l’art sacré, «Contact», n. 44, 1963, p. 278.
5. P. Florenskij, Obratnaja perspektiva (La prospettiva rovesciata), in Trudy po znakovym sistemam, III, Tartu 1967, p. 385 (tr. it. a cura di N. Misler, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Roma 1983, p. 81).