L’ICONOGRAFO, ARTISTA E UOMO DI FEDE “TESTIMONE DEL MONDO CHE VERRÀ”

Chi è l’iconografo? Quali elementi lo contraddistinguono rispetto alla concezione occidentale dell’artista? Come si connota il suo ministero nell’ambito della Chiesa? Più volte il nostro sito si è occupato di questo tema (per approfondimenti, è possibile utilizzare il motore di ricerca interno). Torniamo sull’argomento, tuttavia, grazie a una specifica sollecitazione pervenutaci via mail dall’amica Lorenza F., di Vicenza, che ringraziamo. Utilizziamo, per cercare di soddisfare le curiosità, la riflessione di sr Renata Bozzetto e sr Rossana Leone, del Piccolo eremo delle querce di Caulonia (Reggio Calabria), che offre anche interessanti spunti riguardo alla spiritualità dell’icona.

La fascinosa misteriosità dell’icona attrae e seduce. Al di là dell’ammirazione estetica, soggettiva e mutevole, l’occhio si posa stupito sull’inusitata bellezza di forme e colori che fanno affiorare arcane memorie dai meandri dell’anima. S’intuisce di essere immersi nel respiro di un’arte che trascende, fino a percepire che, al di là di un occhio che guarda, lo spirito suscita uno sguardo che ascolta. Arte e spiritualità sono i due volti speculari dell’Icona: l’una si riflette quasi naturalmente nell’altra generando una sinergia che valorizza le prerogative di entrambe. Non stupisce allora che le immagini sacre siano patrimonio universale dell’uomo di tutti i tempi, bisognoso di figurazioni visibili del divino. Si pensi, ad esempio, ai seguaci dei culti misterici che in epoca tardo-antica imprimono i segni della divinità in immagini primordiali o, più tardi, alle effigie dell’imperatore, attestato della sua stessa presenza, che divengono oggetto di culto e garanzia di autorevolezza giuridica, o, infine, ai ritratti funerari dipinti ad encausto.

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Un’arte teologica
Alla luce di questo antico retaggio si chiarifica anche lo sviluppo delle immagini sacre agli albori della cristianità e si giustifica il rapporto tra queste e le raffigurazioni pittoriche dell’antico Egitto, di cui abbiamo ampia dimostrazione nelle tavole copte, come l’icona di Cristo e Apamenas, del VII secolo, attualmente conservata al museo del Louvre, nota per la ieraticità del disegno e l’intensità espressiva. Tuttavia, se è possibile registrare senza indugio tali affinità, occorre anche sottolinearne la sostanziale differenza: l’icona per i cristiani è celebrazione dell’uomo partecipe della vita divina e non ritratto della sua carne corruttibile. Ciò detto, va da sé che, riferendoci all’icona, sarebbe più opportuno parlare non semplicemente di ‘arte’ ma di ‘arte teologica’. L’icona dischiude infatti i tesori abissali della Trascendenza e introduce negli spazi atemporali del Divino. Lasciando tralucere la Bellezza increata, diventa canale di grazia e finestra sull’eternità: mistero sofianico in cui la creatura si apre al suo Creatore e, inscindibilmente, il Creatore manifesta condiscendenza verso la sua creatura.
Ma cos’è che rende la Trascendenza ‘possibile’ all’Immanenza? «Non avete visto i suoi tratti» – ammonisce l’autore sacro dell’Antico Testamento, prorompendo in una severa interdizione: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo…» (Es 20,4). Qui, l’inquietante empasse della controversia iconoclasta. Scrive Giovanni Damasceno: «Come fare un’immagine dell’Invisibile? Chi potrebbe rappresentare i suoi tratti, se non vi è nessuno simile a lui? Come rappresentare chi non ha né quantità, né grandezza, né limiti? Quale forma attribuire a colui che è senza forma? Che ne è qui del mistero? Questo, senza dubbio: se tu vedi che l’Incorporeo si è fatto uomo per te, allora puoi esprimere la sua immagine umana. Poiché l’Invisibile, incarnandosi, si è mostrato visibile, è ovvio che puoi dipingere l’immagine di colui che è stato visto. Se chi non ha corpo, né forma, né quantità, né qualità e che trascende ogni grandezza grazie all’eccellenza della sua natura; se costui – dico – pur essendo di natura divina ha fatto sua la condizione dello schiavo, riducendosi alla quantità e alla qualità e rivestendosi delle umane fattezze, dipingi allora sul legno la sua immagine e presenta alla contemplazione colui che volle divenire visibile»[1].
Cristo, dunque, che noi abbiamo udito, veduto con i nostri occhi, contemplato e toccato con le nostre mani, (cfr. 1Gv 1,1) è la vera Icona ‘possibile’ del Dio invisibile. Non solo: l’evento dell’incarnazione, operando la redenzione della materia, ha reso possibile la trasfigurazione e la divinizzazione dell’uomo. È «la divina forma umana» che l’Icona raffigura, secondo la formula del poeta inglese William Blake. Ed è «attraverso l’intervento della Grazia nei Santi di Cristo», come ribadisce il Settimo Concilio Ecumenico, che l’uomo, ormai trasfigurato e divinizzato, può diventare ‘icona’: ad essere venerata infatti è la gloria di Dio che lo abita come limpida acqua che scaturisce da intatta sorgente.

Il ‘ministero’ dell’iconografo
Chi è allora l’iconografo? E’ un uomo di fede e la sua arte «una speciale testimonianza del mondo a venire, di quella realtà in cui Dio sarà “tutto in tutti”»[2]. Attraverso la contemplazione della Divina Bellezza, l’iconografo cerca infatti di liberarsi dalla sua soggettività finita per lasciarsi afferrare totalmente dalla Luce increata. Così facendo, la sua icona, dipinta sotto lo sguardo del “Divino Iconografo” – lo Spirito Santo -, risveglia in lui l’immagine che è, immagine di Dio. E la risveglierà in tutti coloro che guarderanno l’icona con amore o che, piuttosto, si lasceranno guardare da essa[3]. Scrivono Alphonse e Rachel Goettmann: «Le esigenze poste all’iconografo sono dunque altissime, per­ché la responsabilità che gli incombe è enorme. Il suo “mestie­re”, nel senso proprio del termine, è un ministero. D’altronde la tradizione ha sempre assimilato l’iconografo a un sacerdote: la sua tavola è un altare in cui egli in realtà non dipinge, ma prega e celebra i santi misteri, in chiesa e per la Chiesa. Il suo cammino personale e la sua casa traggono l’uno dall’altro la propria sostanza e si sovrappongono. Più egli stesso avanza sulla via della santità, più è in comunione con il modello di cui vuole esprimere la somiglianza con la pittura. Tutto dipende dall’esperienza spirituale del pittore che è la sola fonte di una trasmissione di bellezza, di forza viva e attiva. Le icone pene­trano e si installano nel cuore degli uomini, forgiano nel corso degli anni la loro mentalità, inducono un modo di vivere e di comprendere il mondo. È questo il loro ruolo, e il ruolo dell’iconografo è quello di lavorare su se stesso: la sua trasparenza consente la trasparenza delle sue opere e offre allo Spirito Santo la libertà di ispirarlo, di creare forme nuove «che nessun occhio ha mai visto» (1Cor 2,9), a partire dall’antico»[4].

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L’icona ieri e oggi
Lontana dall’insidia del culto idolatrico, salda sul fondamento della teologia e della tradizione, l’icona si radica nella vita della Chiesa occupando gradualmente una posizione stabile nella divina liturgia. A partire dall’843, con l’uscita vittoriosa dal bagno di sangue della lotta iconoclasta, in cui lo scontro ideologico era sfociato nelle persecuzioni e nella distruzione delle immagini, l’icona fiorisce e si sviluppa ad ampio raggio. Da Costantinopoli, centro propulsore di produzione e diffusione, la “Gioia degli Iconoduli” si estende a tutta l’area bizantina e alle regioni della cristianità orientale influenzate dalla cultura dell’Impero: la penisola balcanica, la Russia, la Georgia, la Palestina del tempo delle crociate, comprese la Valacchia e la Moldavia postbizantine. E lungo i secoli, nei monasteri soprattutto, sorgono numerose scuole d’iconografia in cui la tradizione bizantina si fuse con le caratteristiche delle culture locali, elaborando opere d’impareggiabile bellezza. Poi la decadenza, con il dilagare delle mode occidentali che relegarono la tradizione iconica negli angoli bui della trascuratezza. Il decorativismo delle rize fece il resto, oscurandone fino a celarlo il linguaggio stesso dell’icona. Sotto le ceneri della distratta dimenticanza, attestata persino dalla sostituzione della tempera all’uovo con l’uso di colori ad olio, tuttavia l’immagine sacra rimase nel cuore di molti, soprattutto “i vecchi credenti” che in Russia preferirono l’esilio pur di potere mantenere il loro culto e le loro icone, così come la tradizione le aveva loro consegnate.
Ed infine l’oggi della riscoperta, anche nell’Occidente cattolico: «Da alcuni decenni – scriveva Giovanni Paolo II … – si nota un recupero d’interesse per la teologia e la spiritualità delle icone orientali; è un segno di un crescente bisogno del linguaggio spirituale dell’arte autenticamente cristiana. Il credente di oggi, come quello di ieri, deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero, senza per nulla occultarlo. È questa la ragione per la quale oggi come per il passato, la fede è ispiratrice necessaria dell’arte della Chiesa»[5].

[1] GIOVANNI DAMASCENO, Adversus eos qui sacras imagines abiciunt, PG 94,1239.
[2] ALEKSIJ II, Messaggio ai partecipanti e agli ospiti del XIII Convegno internazionale “Sant’Andrej Rublev e l’icona russa” (15-17 settembre 2005, Bose, Italia), Magnano 2006, p.15.
[3] Cfr. O. CLEMENT, L’Arte e la Sapienza, in AA. VV., Sophia la Sapienza di Dio, a cura di G. Cardillo Azzaro e P. Azzaro, Milano 1999, p.54.
[4] A. e R. GOETTMANN, L’alfabeto del silenzio, Vicenza 1998, p.131.
[5]GIOVANNI PAOLO II, Duodecimum Saeculum. Lettera Apostolica, 11.