DON GIANLUCA BUSI: “NELL’ICONA L’ESPERIENZA VIVA DEL CRISTO RISORTO”

Nel suo fondamentale testo dedicato alle icone e all’iconografia dal titolo “Il segno di Giona”, pubblicato nel 2011 da Dehoniana Libri, don Gianluca Busi, pittore di icone, studioso di arte iconografica, teologo e componente della commissione di Arte sacra dell’Arcidiocesi di Bologna – oltre che autorevole rappresentante del Comitato scientifico del nostro progetto culturale – dedica un’ articolata riflessione al rapporto fra le stesse icone e la bellezza. Un tema centrale che tocca da vicino anche la mostra “La bellezza della Misericordia” in corso, fino al 10 luglio 2016, presso la sede di Confartigianato Bergamo in via Torretta 12. Riportiamo un ampio stralcio del testo di don Busi. 

di don Gianluca Busi

La persona che ha una certa dimestichezza con la pittura occidentale di carattere religioso, avverte, spesso immediatamente, un rapporto controverso fra icona e bellezza. Normalmente questo suscita interrogativi irrisolti e attorno a questo rapporto si concentrano generalmente le domande del neofita che si accosta a questo tipo di immagini. Occorre puntualizzare che l’icona è una immagine deputata al culto liturgico: non è carica di una bellezza sensibile e immediatamente fruibile, perché lo scopo peculiare per cui viene dipinta è quello di rimandare il più direttamente possibile al mistero di Dio, senza indugiare sulla godibilità dell’immagine. Per questo motivo la rappresentazione mantiene sempre un certo pudore per non legare lo sguardo all’immagine e cerca di presentarsi come una “finestra” che apre e indica la dimensione soprannaturale. Data questa premessa, occorre valutare quale sia il rapporto che intercorre fra immagine reale e immagine rappresentata in una icona, per comprendere a fondo che cosa si intenda per “bellezza” iconografica applicata ad una rappresentazione di Cristo. Vi è una idea ingenua che tende a collegare l’icona di Cristo con la sua immagine reale, come fosse un “ritratto” dal vero. Una immagine che rappresenterebbe in modo diretto la bellezza del più bello fra i figli dell’uomo. Questo è un primo equivoco da risolvere: i cristiani delle prime generazioni hanno cercato di “dimenticare” la fisionomia peculiare del Cristo (L’eikon di Gesù di Nazareth), anche per non essere considerati alla stregua dei “pagani” che adoravano immagini che rappresentavano personaggi singolarmente identificabili (L’eikon di Caligola ad esempio). Non è così paradossale affermare che se un cristiano o una comunità cristiana del primo secolo avessero posseduto il lenzuolo mortuario, la cosiddetta Sindone di Gesù, lo avrebbero tenuto nascosto o giudicato di scarsa importanza. I testi neotestamentari, scritti alcuni decenni dopo la morte di Gesù, quando cioè la fede iniziava ad essere tramandata dai testimoni oculari alla seconda generazione che non aveva conosciuto visibilmente Gesù di Nazareth, esprimono bene questa problematica, come può essere colta in particolare nei passaggi dell’episodio di Tommaso in Gv 20, 19-29, soprattutto il v. 29 conclusivo: Gesù gli disse: “Perché mi hai visto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, e nel passo paolino di 1Cor 5,16-17:“Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”.

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L’idea comunicata sembra essere questa: occorre superare l’apparenza (eikon-icona) in relazione alla conoscenza di Cristo e interiorizzare la sua persona attraverso l’annuncio (kerygma) della Risurrezione che si concretizza intimamente nell’esperienza spirituale. E’ questa la vera “visione” e “conoscenza”, secondo gli autori del Nuovo Testamento, occorre lasciarsi alle spalle l’immagine di Cristo recepita direttamente attraverso la vista e riappropriarsene attraverso l’annuncio e l’esperienza spirituale. La descrizione iconografica di Cristo è l’erede di questa mentalità già trasmessa a partire dalle narrazioni evangeliche. L’antichità non conosce ritratti di Cristo perchè non si voleva che i cristiani fossero legati ad una immagine, come i pagani. I primi cristiani non rappresentavano il Cristo e non era una loro esigenza: l’immagine di Cristo è legata infatti alla esperienza della apparizione (un’eikon riappropriato attraverso il kerygma). Paradossalmente fu ribadito che anche un testimone oculare doveva riappropriarsi della conoscenza di Cristo per via di apparizione, tralasciando la visione “secondo la carne”. Data questa premessa fondamentale occorre anche aggiungere un particolare ulteriore legato al retaggio culturale mediato dal neoplatonismo. Quando un iconografo si accingeva a ritrarre una immagine di Cristo, si avvicinava a questo compito con un pudore immenso: si trovava a disagio a rappresentare una materia con una consistenza e un significato immediatamente positivo. Per cui difficilmente avrebbe rappresentato una raffigurazione umana in analogia con quello che poteva mutuare da una osservazione di un modello reale. E’ per questo motivo che la pittura iconografica non si presenta mai come una raffigurazione mutuata dalla realtà (13), ed è anche per questo motivo che le icone sono di così difficile lettura immediata per un osservatore contemporaneo.

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Una icona di Cristo è normalmente una figura appiattita senza la cosiddetta terza dimensione, non ha un modellato costruito con la tecnica del chiaroscuro, non esprime passioni e stati d’animo particolari, non esiste neppure uno sfondo che riproduce una ambientazione reale come una stanza o un paesaggio ma una lamina d’oro che indica la dimensione soprannaturale. Forzando i termini si potrebbe dire infatti che l’iconografia è una pittura astratta espressa in maniera figurativa: è un dipinto che non nasce mai da una osservazione della realtà che viene poi trasposta in pittura, ma nasce da una esperienza spirituale che comunica una visione interiore e che viene poi “tradotta” figurativamente. Può aiutare un confronto con un pittore occidentale. Giotto rappresenta il Cristo prendendo un uomo concreto come riferimento diretto, nel rappresentarlo poi, lo spiritualizza perfezionandolo, ad esempio: arrotonderà maggiormente l’iride nell’occhio, assottiglierà il naso lo renderà di statura più alta della media ecc.. Siamo di fronte ad un utilizzo convenzionale della pittura figurativa, mentre nell’iconografia, prima viene una esperienza di Dio che si “materializza” nella interiorità del pittore che ne trasforma intimamente e progressivamente l’esistenza; segue poi la “traduzione” pittorica, che esprime soprattutto questa subordinazione del materiale nei confronti dello spirituale. E’ questa la bellezza peculiare di una icona: essa appare bella nella misura in cui trasmette l’immagine spirituale di una figura, trasformata dall’azione riplasmatrice della divinizzazione. Non esistono analogie dirette con la bellezza sensibile dell’arte figurativa convenzionale, perché è totalmente altro il presupposto che determina l’iconografia. La pittura figurativa segue un itinerario che sale dall’osservazione della figura fino alla raffigurazione ideale, nell’iconografia la visione interiore scende mutuando forme e figure reali e le trasfigura in immagini date per il culto e l’adorazione. Per questo si può dire bella soltanto una icona che scaturisce da una visione soprannaturale, e viene tradotta opportunamente in una immagine affinchè sia “bellezza che salva” chi la venera introducendo l’orante nella liturgia e santificandolo. Potremmo dire ancora meglio che “l’icona è bellezza che genera bellezza interiore”, di fatto comunica e apre l’osservatore che la venera all’esperienza del Cristo risorto.

13 La lingua russa distingue opportunamente fra Jivopis (pittore che dipinge rappresentando la realtà, “dal vivo”) e Iconopis (pittore-scrittore di icone). Assegnando termini distinti è la lingua stessa che sottolinea la marcata differenza di origine.