PASTERNAK, PUBBLICATE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA LE “POESIE DI ZIVAGO”

(Da ilmessaggero.it) – Pur senza Zivago, era già entrato dagli Anni Venti nel mito della letteratura russa. Per l’ammirazione dei tanti lettori che parlavano di lui come del più grande poeta vivente e anche per suoi discorsi quotidiani “da poeta”, capaci di dilagare “dagli argini della struttura grammaticale con frasi lucide che si alternavano a immagini sfrenate, sempre vivide e concrete”. Ma da tempo Boris Pasternak non era più in grado di “marciare al passo” con la rivoluzione cui aveva partecipato con entusiasmo. Nel 1924 si era schierato apertamente contro la persecuzione degli intellettuali da parte degli attivisti della “cultura proletaria”: una campagna “di sospettosità e intolleranza, per il pensiero fuori della norma, insomma contro la cultura”, manovrata dai tanti chierichetti della pratica rivoluzionaria, ”poveri, vecchi e deboli cavalieri, rotolandosi da un’umiliazione all’altra per la gloria di una loro dama sconosciuta e a nessuno necessaria”. Accusato di “indifferenza politica” per i suoi versi colpevoli di “astrattismo antisociale”, il poeta aveva scelto la via del silenzio in una consapevole emarginazione: “Non si può, senza conseguenze, mostrarsi ogni giorno diversi da quello che ci si sente: sacrificarsi per ciò che non si ama, rallegrarci di ciò che ci rende infelici”.

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Molti anni dopo, il fragoroso successo del “Dottor Zivago” metteva in ombra, e quasi ancora una volta cancellava, il poeta. Eppure Pasternak continuava a essere un poeta, “il più terso, il più fiducioso”, sempre “al servizio della bellezza e la bellezza è la felicità di dominare la forma e la forma è il presupposto organico dell’esistenza.”. Un grande poeta-fanciullo, ma non era lui il fanciullo, era “ il mondo dentro di lui che era restato fanciullo”, secondo la Cvetaeva. “Ha ottenuto in premio un’eterna giovinezza poetica”, ripeteva l’Achmatova. E Alberto Moravia, che lo incontrò dopo il Nobel nella sua dacia di Peredelkino, il villaggio degli scrittori voluto da Stalin negli anni Trenta, annotava l’ aspetto “non infrequente tra i poeti, un adolescente dai capelli grigi” che parlava lentamente, con voce di tenore, “usando periodi solenni, in cui s’inserivano intense cascate di parole”, convinto che tutta la poesia non esclusa quella tragica fosse “il racconto della felicità di esistere”. Un poeta che affiancava il narratore e che aveva trasfuso nell’ampiezza epica del “Dottor Zivago” le invenzioni, i motivi, le esperienze dei suoi versi. Nella introduzione a “La notte bianca Le poesie di Zivago” (Biblioteca del Leone, 90 pagine12 euro), per Paolo Ruffilli Jurij Živago, il tipo di antieroe che non piaceva ai burocrati di partito, è la trasposizione romanzata, l’alter ego narrativo di Pasternak. Interprete di quella stessa fragilità dell’individuo, di quella solitudine dell’intellettuale che Pasternak sperimenta, dentro la violenta morsa della storia del suo paese “stravolto e squartato” dalla guerra e dalla rivoluzione. E anche portavoce della stessa alternativa spiritualistica impregnata di sensibilità cristiana di cui è stato testimone coraggioso.

Dietro la sua creatività e l’esercizio del pensiero, Jurij nel romanzo scrive e pubblica poesie proprio come faceva e continuava a fare lo stesso Pasternak. E’, appunto, questo il progetto che viene riproposto nella nostra lingua, anzi proposto nella sua interezza per la prima volta con “La notte bianca”: sono tutte le originarie “Poesie di Zivago” a cui lo scrittore lavorava con convinzione e negli stessi anni in cui scriveva il romanzo della sua fama mondiale. Un nucleo denso e articolato secondo i temi stessi della storia, una sorta di antologia intesa come fiore del fiore, anticipandone a verifica delle intenzioni la pubblicazione nella rivista “Znamja”, nell’aprile del 1954. Se dunque Jurij è Boris, le poesie che devono concludere il romanzo sono le più rappresentative e autenticamente appartenenti a Pasternak. Come parte integrante del romanzo, le “Poesie di Zivago” sono “le più incisive, le più intense, le più suggestive”. Dice bene Ruffilli, che cura anche le traduzioni, che esse ripercorrono l’intera vicenda di Jurij, facendo da riassunto per “tappe” del percorso esistenziale e costituendo ciascuna la “stazione” e “icona” di una fase, di una meta, di una caduta, di una ripresa, di un ritorno. un’originalità sobria, smussata, irriconoscibile all’esterno, “nascosta sotto il velo di una forma ovvia e consueta”. “Tu sei il bene di un passo che è fatale, / quando vivere dà fastidio più di un male. / Ma la bellezza incita al rischio con coraggio / ed è la cosa che attira noi l’uno sull’altra.” Uno stile inavvertito “che non attira l’attenzione”, come nei molti versi che interpretano il tema amoroso profondamente radicato nel poeta georgiano in cui (come scrive Marilena Rea che ha curato recentemente da Passigli i versi amorosi “Anch’io ho conosciuto l’amore”) la rivelazione è tanto prepotente quanto “microscopica”:“una boutique di violette, un nasino arricciato, /uno sguardo conficcato nel soffitto, una mano sotto la nuca”.

Renato Minore
(13/06/2016)