L’ARCHIMANDRITA ZINON: “ORIENTE E OCCIDENTE HANNO BISOGNO DELL’ICONA”

“L’archimandrita Zinon è oggi il più importante iconografo russo e la sua opera segna per molti aspetti la direzione in cui stanno sviluppandosi la tradizione iconografica e l’arte sacra in generale. (…) Padre Zinon, al secolo Vladimir Teodor, è nato a Nikolaev nel 1953. Fin dall’infanzia è vissuto all’interno della Chiesa, la nonna lo portava sovente con sé alle funzioni. Ha studiato a Odessa in un istituto d’arte, nella sezione di pittura. Proprio qui sono avvenuti il suo primo incontro con l’icona e la sua prima esperienza di decorazione di una chiesa…” (da “Io faccio nuova ogni cosa”di Irina Jazykova, La Casa di Matriona, 2002, pag.103). Pubblichiamo di seguito una conversazione con l’archimandrita Zinon della stessa Irina Jazykova, avvenuta nel 1995 presso il monastero della Trasfigurazione di Pskov, dove ha sede la scuola iconografica del monaco, che, a distanza di oltre vent’anni, presenta contenuti di stringente attualità.

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Lei ha detto che in Russia per ora non esiste ancora una scuola di iconografia e che per il momento non si può parlare di una ripresa della tradizione. Questo significa che la pittura di icone oggi non ha ancora trovato una propria fisionomia?

È noto che l’icona venne riscoperta solo alla fine del secolo scorso, quando tutti furono abbagliati dalla sua bellezza e cominciarono a guardare con occhi diversi l’antica arte sacra. Ma le vicende storiche fecero sì che questo non avesse un seguito. Solo negli ultimi decenni sono apparse persone che hanno cominciato ad occuparsi seriamente di iconografia. Per poter riprendere la tradizione, e tanto più per pronunciare una parola nuova in campo dell’arte sacra, occorre ancora tempo. Venti o trent’anni non bastano: siamo stati sradicati dalla nostra tradizione e per riannodare i fili strappati, per riscoprire la tradizione occorrono tempo ed energia notevoli. E’ ancora presto per parlare di scuola: la creatività autentica è possibile soltanto all’interno di una tradizione, e noi dobbiamo ancora camminare per avvicinarci alla tradizione. Non basta soltanto acquisire la tecnica, bisogna addentrarsi nello spirito della Chiesa, nello spirito dell’autentica ortodossia, trasfigurare la ricchissima eredità che abbiamo ricevuto e filtrarla attraverso la coscienza ecclesiale contemporanea. Solo allora si potrà realizzare qualcosa. Finora stiamo semplicemente facendo degli esperimenti. Ogni iconografo, se solo guarda con serietà al proprio lavoro, non può che sentirsi un allievo e niente di più. Forse parecchi non saranno d’accordo, ma io la penso così.

L’iconografo quindi deve essere inserito nella tradizione, nella Chiesa, ma oggi non abbiamo ancora trovato delle forme adeguate di vita ecclesiale. In passato chi voleva diventare iconografo poteva prepararsi in monastero, dove oltre al laboratorio trovava anche una comunità, una vita liturgica. La persona non era lasciata sola. Oggi il processo di riedificazione della comunità nelle chiese parrocchiali è molto incerto, mentre per diventare iconografi è necessario un ambito ecclesiale e un ambito spiritualmente sano.

Dopo che la Chiesa ha ottenuto la libertà, qui in Russia si cerca di far rinascere forme ecclesiali già sperimentate, in primo luogo l’ortodossia nella sua variante sinodale. E un fenomeno normale nella misura in cui si tratta di una tappa evolutiva, ma se invece ci fermiamo qui, entriamo in un vicolo cieco. Prendiamo in considerazione i nostri pensatori religiosi e i teologi della cosiddetta “scuola di Parigi”: se non fosse stato per loro, per molti anni noi non avremmo praticamente avuto nessun pensiero teologico. È immenso il merito, ad esempio, di padre Nikolaj Afanas’ev, Georgij Florovskij, Aleksandr Smeman, che trovandosi in una situazione estremamente difficile hanno saputo guardare con occhi diversi alla propria tradizione. L’ambiente circostante, cattolico o protestante, poneva innumerevoli domande, a cui bisognava fornire delle risposte a nome della Chiesa. Inoltre bisognava parlare nel linguaggio non solo della Chiesa ortodossa russa, ma dell’ortodossia universale. E bisognava conoscere tanto bene questa tradizione, esservi a tal punto immanenti, da poter parlare a suo nome. Cosa che essi hanno fatto splendidamente. Ad esempio, i libri di padre Aleksandr Smeman sulla liturgia a tutt’oggi tra i migliori sono indispensabili ai nostri contemporanei che vogliano conoscere a fondo l’ortodossia.

Affinché l’arte sacra raggiunga un alto livello sono necessarie riforme, anche riforme liturgiche. Da noi invece la parola “riforma” fa paura. In ogni caso prima o poi le riforme saranno inevitabili. La Chiesa cattolica negli anni ’50 ha attraversato la stessa crisi, ha sperimentato gli stessi timori nell’abbandonare la lingua latina. Tuttavia ha deciso di agire e il Concilio Vaticano II ha trasformato interamente la vita della Chiesa cattolica, sebbene molti ne fossero scontenti. Ma non si può arrestare la vita. La vita pone dei problemi e bisogna risolverli. È stato così sempre. Arrestarsi a determinate forme, fissarle una volta per tutte è semplicemente impossibile. In Russia questo è già finito tragicamente una volta, nel XVII secolo, con lo scisma. L’icona non avrebbe mai potuto nascere fuori della Chiesa e per questo la Chiesa ha sempre imposto delle condizioni ben precise all’icona, le stesse condizioni che si richiedono per la predicazione. L’immagine sacra può travisare la dottrina della Chiesa quanto la parola, invece di essere una testimonianza può dare falsa testimonianza. Oggi invece, purtroppo, l’icona non occupa il posto che le compete nella liturgia, nessuno sembra più esigere niente da essa, qualunque raffigurazione viene chiamata icona… Per rimediare in qualche modo alla situazione creatasi, sarebbe necessario esaminare i problemi conciliarmente, in modo comunionale, mentre noi non sappiamo più come farlo. Non si vuole ascoltare il parere altrui. Se qualcuno non la pensa come me, non è più mio amico…

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L’icona è nata nella Chiesa ben prima dello scisma. È giusto ritenerla non solo patrimonio della tradizione ortodossa orientale, ma di tutta la cristianità?

Certamente. Quando, viaggiando per l’Europa, ho avuto modo di vedere gli affreschi delle chiese romaniche, mi sono convinto che in essi la tradizione bizantina traspare molto chiaramente. Certo, si vede subito che non sono dipinti da un greco, eppure la concezione che vi è sottesa è comune, diversa e al tempo stesso affine. Ecco una risposta diretta alla sua domanda di prima, sulla tradizione. Si ritiene che l’icona sia patrimonio dell’Oriente mentre l’Occidente non la comprende. Ma non è affatto così. Praticamente in tutte le chiese cattoliche (e a volte anche in quelle protestanti) vi sono icone bizantine o russe antiche. L’Occidente comprende l’icona e ne ha altrettanto bisogno dell’Oriente. Io direi anzi che là viene più studiata e compresa; noi invece riposiamo sugli allori, pensando che comunque ci appartiene. Un’altra cosa che mi ha stupito è la quantità di elementi ornamentali delle chiese romaniche che si possono incontrare nelle chiese russe del XII secolo. Evidentemente i contatti con l’Europa dovevano essere buoni, stretti. Secondo le cronache. Aleksandr Nevskij ordinò di costruire a Pskov una chiesa latina. E a Kiev nel XIII secolo esisteva un monastero domenicano. Santi occidentali, ad esempio Clemente papa di Roma, godevano grande venerazione nella Rus’, a Kiev, Novgorod, Pskov.

Parliamo dcl problema dell’iconostasi, concepita in passato per aiutare i credenti a cogliere il mistero che si compie nella liturgia, mentre oggi viene recepita unicamente come una parete che divide i laici dai sacerdoti sull’altare. Lei che ne pensa?

Forse potrà suonare strano sulle labbra di un iconografo, ma io abolirei completamente l’iconostasi… Oppure la limiterei a due icone, di Cristo e della Madre di Dio. Quanto alle porte regali devono costituire una barriera puramente convenzionale. Del resto i greci aprono le porte regali all’inizio della liturgia e chiudono dopo il rinvio finale. La barriera d’altare nell’antichità aveva un significato puramente utilitario, come nelle chiese cattoliche odierne, in cui davanti all’altare esistono delle balaustre basse affinché il popolo non si ammassi e non disturbi la celebrazione. Originariamente l’iconostasi non era stata ideata così come la intendono oggi i credenti. Non era assolutamente un muro che divideva l’altare dal tempio, perché lo spazio del tempio è tutto ugualmente sacro. Al contrario, l’iconostasi fu ideata come parete unificante. L’idea stessa di iconostasi nasce dal mistero dell’incarnazione divina, ogni icona è cristologica, testimonia che Dio è entrato nel mondo, si è fatto uomo e vive per sempre fra quanti credono in Lui, fino alla fine del mondo. L’icona è la testimonianza visibile della sua Presenza fra noi. Ma l’icona aveva bisogno di un sostegno, di una parete, per poter essere collocata nello spazio del tempio. Così è nata l’iconostasi. L’iconostasi però non ha mai isolato l’altare, che oggi da molti viene inteso come il Sancta Sanctorum del tempio veterotestamentario, mentre il tempio viene inteso come spazio sacro, e l’atrio come il luogo stabilito per i pagani. Le categorie del tempio veterotestamentario sono state trasposte nel tempio neotestamentario in modo scorretto e contraddittorio rispetto ai testi liturgici. Lo storico Golubinskij all’inizio del secolo proponeva di ridurre l’iconostasi a un solo ordine, e di abbassare le porte regali a un metro di altezza, ma la situazione storica non consentiva nessun cambiamento. Al Concilio del 1917-18 i problemi legati all’arte sacra furono posti, ma non si ebbe il tempo di esaminarli in modo esauriente. Oggi certamente è venuto il momento di parlarne, sebbene i russi abbiano la caratteristica enunciata già dal protopope Avvakum: “Se qualcosa è d’usanza da noi, così sia nei secoli dei secoli, e non la si tocchi”. Ad esempio, all’inizio del secolo molti credenti non andavano nelle chiese dove c’era l’illuminazione elettrica, convinti che per questo motivo li non ci fosse la grazia di Dio. Oggi invece non si potrebbe in nessun modoeliminare l’elettricità dalle chiese. In Russia si fa una gran fatica per introdurre qualunque cosa, e altrettanta fatica occorre per sradicarla. Lo stesso avviene per l’iconostasi a più ordini: è un fenomeno tipicamente russo, eppure molti ritengono che ne vada dell’ortodossia.

Provi un po’ a pensare a questa associazione dì parole, “ortodossia russa” oppure “ortodossia greca”. Suona strana, ma a questo punto siamo costretti a toccare temi “proibiti”: i russi ritengono che i greci non siano pienamente ortodossi; i greci a loro volta non riescono a riconoscere la propria liturgia nei russi, dicono che i russi hanno alterato la tradizione bizantina. Ufficialmente tra loro esiste la comunione eucaristica, ma mancano relazioni veramente fraterne, manca un’autentica carità. Tutti questi patriarcati locali, tutte queste Chiese autocefale dopo il lo scisma con Roma sono sempre stati rivali fra loro, in primo luogo sul terreno nazionale e poi su quello politico. Vi sono stati conflitti fra greci e bulgari, fra greci e russi, fra bulgari e serbi, e così via. E questo perché ciascuno ha la propria ortodossia. Voce della Chiesa sono ritenuti gli starcy, con il parere dei quali tutti fanno i conti. Nell’antichità, invece, starec e Chiesa erano concetti sinonimi, lo starec insegnava ciò che dice la Chiesa. Oggi invece talvolta posizioni e dottrine individuali vengono contrabbandate per la voce della Chiesa. Per questo assistiamo a un fenomeno analogo a quello rimproverato da san Paolo ai Corinti: “Ciascuno di voi dice: “lo sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”,”E io di Cefa”, “E io di Cristo!”” (1Cor 1,12). Cristo del resto ci aveva ammonito: una casa che si divida in se stessa non può stare in piedi.

In uno dei suoi articoli ho letto che se in precedenza la Chiesa si batteva per l’icona, adesso è l’icona a combattere per la Chiesa.

Non sono parole mie, bensì di Leonid Uspenskij, a cui mi associo. Oggi molti sono impegnati in dibattiti secondari nella Chiesa, mentre tralasciano l’essenziale. Il dialogo rischia spesso un’ambiguità di fondo, oppure le formulazioni dogmatiche appaiono difficilmente comprensibili, astratte; invece il linguaggio dell’icona è comprensibile a tutti i credenti, non esistono le barriere frapposte dalle parole. L’uomo contemporaneo è soverchiato dall’abbondanza di informazioni, non dà più credito alla parola. L’icona è patrimonio della Chiesa indivisa, si è formata molto prima dello scisma. Anche oggi, quando è impossibile giungere a un accordo a livello verbale perché le parole hanno perduto la loro primitiva efficacia, l’icona testimonia e predica al mondo contemporaneo. La voce dell’icona è voce della Chiesa. La rinascita dell’icona è rinascita della teologia, del rapporto evangelico nei confronti della realtà. Non è un caso che oggi in Occidente rinascano ovunque scuole iconografiche, in Italia, Francia, Svizzera, Germania, e io cerco di mantenere i contatti con esse.

Non crede che esistano forme diverse per esprimere la spiritualità, e che, se alla preghiera dell’Oriente è necessaria l’icona, per l’Occidente può non essere indispensabile?

Non è facile rispondere a questa domanda. Nelle diverse epoche le cose sono andate diversamente. Oggi però i cattolici ritengono che l’icona sia loro necessaria. La presenza stessa del rito orientale (bizantino) all’interno del cattolicesimo dice che viene fatta propria non solo l’icona, ma l’intera spiritualità orientale. Da noi questo viene inteso come uno stratagemma gesuitico per ingannare gli ortodossi. Ma i fatti parlano da sé: da ormai settant’anni in Belgio esiste il monastero benedettino di Chevetogne, e nessun ortodosso si è convertito al cattolicesimo, sebbene vi si celebri anche in rito orientale, nella lingua slava ecclesiastica; invece quattro o cinque monaci sono passati all’ortodossia. I monaci di questo monastero sono contrari a qualunque proselitismo, hanno uno scopo completamente diverso: bisogna rimanere quel che si è, ed eliminare semplicemente l’ostilità. Non c’è motivo di essere nemici. Le due grandi tradizioni orientale e occidentale devono completarsi a vicenda e non escludersi. A Chevetogne mi sento come a casa mia. Molti monaci là mi hanno detto che hanno riscoperto nuovamente il rito latino attraverso quello orientale, attraverso la liturgia ortodossa. E io, viceversa, dopo aver conosciuto il rito occidentale, ho visto sotto una nuova luce la liturgia orientale. Il contatto reciproco è assolutamente necessario. Senza questo il corpo vivente della Chiesa non può esistere. E del resto la Chiesa ha sempre vissuto di questo scambio, non è mai esistita nell’isolamento, c’è sempre stato uno scambio, artistico, teologico, spirituale. La nostra scuola teologica ha sempre tenuto d’occhio l’Occidente, spesso “ripetendo cose trite e ritrite” della teologia occidentale (l’espressione è di Florovskij): ad esempio, molti cattolici hanno rifiutato la teologia scolastica come ormai superata, mentre da noi si continua a coltivarla; anche la pratica di accostarsi solo raramente alla comunione è giunta dall’Occidente, ma ora la si ritiene pienamente ortodossa, e molti sacerdoti sono contrari alla comunione frequente dei fedeli.

Padre Zinon, lei ripete sempre che l’icona nasce dall’esperienza del cielo, dall’esperienza della vita liturgica, dell’Eucarestia. Forse le difficoltà a far rinascere l’icona derivano dai gravi problemi ecclesiali che stiamo vivendo?

Sì, il problema dell’icona non può essere preso in considerazione separatamente dagli altri problemi della Chiesa. E tutto poggia sul Concilio. Sono più di mille anni che nel mondo ortodosso non si riunisce un Concilio. C’è chi ritiene che non serva a niente, qualcun altro, peggio ancora, dice che non è nemmeno possibile! Questo significherebbe che le porte degli inferi hanno già prevalso sulla Chiesa. Il Concilio infatti è il segno della vitalità e dell’attività della Chiesa. Se il Concilio non può esistere, significa che la Chiesa è morta. E questa è un’eresia bella e buona.

Non le sembra che nell’ortodossia manchi una posizione unanime, una posizione della Chiesa sulle questioni principali?

Purtroppo è così. Infatti ai Padri dei Concili ecumenici molti problemi della vita odierna semplicemente non potevano venire in mente. A questi problemi oggi bisogna realmente dare delle risposte. Ma per rispondere a nome della Chiesa, bisogna esaminarli comunionalmente. E qui non basta semplicemente un Concilio locale o un sinodo: è necessario un Concilio panortodosso con la partecipazione dei greci, dei russi e di tutti gli altri ortodossi, dal momento che ogni Chiesa si è arricchita di una propria esperienza. Da soli i russi non sono in grado di prendere delle decisioni oggettive. Inoltre noi ortodossi abbiamo assolutamente bisogno di prendere in considerazione l’esperienza acquisita dalla Chiesa cattolica negli ultimi decenni. Mi riferisco innanzitutto al Concilio Vaticano II, che ha risanato il mondo cristiano occidentale e ha risolto molti problemi della Chiesa cattolica. Oggi la Chiesa ortodossa russa, e tutto il mondo ortodosso, si trovano di fronte a problemi molto simili a quelli di cui soffriva l’Occidente cattolico prima del Concilio. Sono pronti gli ortodossi al Concilio? Non so…

Padre Zinon, adesso domina l’opinione secondo cui la creatività della Chiesa, per lo meno canonica e dogmatica, si è conclusa. Le questioni fondamentali sono già state risolte dai sette Concili ecumenici. Compito nostro di credenti è semplicemente attuare queste risoluzioni, senza deviare dal solco tracciato. È così?

Certo che no. Per fare solo un esempio, dei più dolenti: come usare oggi i canoni ecclesiastici? In particolare, come fare per la penitenza? Le norme enunciate nella raccolta dei canoni divieti, scomuniche ecc. oggi sono assolutamente inaccettabili. Applicarle a persone vive è semplicemente impossibile. Ad esempio. viene a confessarsi da me una donna convertitasi a settant’anni, ma battezzata nell’infanzia. Ha peccati tali che in base ai canoni dovrei allontanarla dalla Chiesa per vent’anni. Che fare in questo caso? Io personalmente non posso abolire queste norme, può farlo solo il Concilio, esse restano in vigore. E per di più c’è la clausola: chi trascurerà queste norme, bruci nel fuoco della geenna! Scomunicando, però, questa donna per vent’anni, non faccio certo cosa gradita a Dio. Il problema è dunque: fino a che punto si possono trascurare queste norme? Alcuni abbreviano i tempi di due, dieci volte, altri non ritengono necessario addirittura applicarle. Altri invece agiscono alla lettera e scomunicano. Ma quasi nessuno oggi intende la scomunica come una punizione: al contrario, per molti potrebbe essere una punizione l’indicazione di comunicarsi ogni domenica. Tutte le norme disciplinari sono state formulate in una certa epoca, quando le consuetudini erano completamente diverse. Io sono sicuro che gli uomini della fine del XX secolo sono diversi dagli uomini dell’VIII secolo. Tutte le nostre tradizioni locali non sono niente di più che una consuetudine, che non ha alcun legame né con il Concilio, né con la teologia. Mi sembra che nei loro termini più ampi noi non possiamo risolvere ora questi problemi. Semplicemente ciascuno deve fare quel che può, al proprio posto. Oggi è venuto il momento non tanto di parlare della fede, quanto di testimoniarla. Si può parlare a meraviglia – e chi non è capace di parlare oggi?! -, ma se non si fa niente, niente potrà cambiare. Io faccio quel che posso. Sono un iconografo, il mio compito è dipingere le icone.

Da quanto lei dice, cambiando atteggiamento verso l’icona, possiamo cambiare molte cose nella Chiesa: del resto, tutti i problemi sono collegati…

Ripeto brevemente una cosa che ho già detto molte volte, ma che mi sembra fondamentale: studiosi e restauratori intendono l’icona in modo unilaterale, vedono in essa solo un genere artistico, dimenticando che l’icona non avrebbe mai potuto apparire fuori della Chiesa, ma nasce dalla liturgia. Anche i credenti guardano sovente in modo inadeguato l’icona, vedendovi semplicemente un oggetto di culto, senza tener conto che l’icona deve avere bellezza e dignità artistica. Mi sembra che sia venuto il tempo in cui si possa e si debba realizzare una collaborazione fra studiosi e restauratori da un lato, e uomini di Chiesa dall’altro. I primi possono aiutare i credenti a vedere realmente la bellezza dell’icona e i credenti possono dare significato al lavoro di studiosi e restauratori. La critica d’arte come scienza è entrata in un vicolo cieco.

Forse unire gli sforzi sarà un passo verso la comunione ecclesiale, o almeno verso la collaborazione. Spero che proprio di questo si occuperà la sua Scuola iconografica, che può diventare un centro straordinario di contatti. Il monastero di Miror è il luogo ideale per questi incontri. Lei che ne pensa?

Per ora sono solo sogni, e non so quanto riusciremo a realizzare questi progetti. Certo, il monastero di Miroz è adatto, perché abbiamo davanti agli occhi splendidi modelli della pittura sacra del XII secolo, da cui si può imparare molto. In futuro vorremmo creare qui un centro presso cui la gente possa studiare e lavorare. Ed è assolutamente necessario instaurare dei contatti con cristiani di diverse tradizioni, perché anche fra i cattolici ci sono molti bravi iconografi, come pure fra gli ortodossi che vivono all’estero. Tutti costoro ritengono un grande onore vivere qui, in Russia, in un monastero. Ma i cattolici non vengono praticamente accolti in nessun monastero. Inoltre abbiamo intenzione di invitare anche studiosi d’arte e teologi per organizzare convegni e lezioni. perché i contatti tra studiosi iconografi e teologi sono indispensabili. Ma tutto dipende dalle condizioni materiali, perché per il momento non siamo in grado di accogliere nessuno, tanto più degli occidentali. Chissà, forse in futuro si riuscirà a fare qualcosa.

a cura del Centro Russia Ecumenica – Roma