IL SETTIMANALE “L’ESPRESSO” E IL SERVIZIO DA MOSCA: “COSÌ LE ICONE PARLANO”

Il 30 marzo scorso il settimanale “L’Espresso” ha pubblicato un lungo articolo a firma di Riccardo Amati dal titolo “Il monaco Vyaceslav e la leggenda del santo pittore: “Così le icone parlano”.” Il reportage è stato realizzato nel monastero di Sant’Andronico a Mosca, dove il Santo iconografo Andrej Rublev visse e operò e dove, secondo le fonti, venne anche sepolto benché la sua tomba non sia mai stata rinvenuta. Riportiamo il testo per gli amici de “I sentieri dell’icona”. Le foto a corredo sono di Dhoni Ibrahim, pubblicate a corredo dell’articolo.

Ha steso sul legno di faggio la colla di storione mischiata a una tela a trama larga che chiama “povoloka”. Poi il gesso, e lo ha levigato. Il disegno l’ha tracciato col pennello, e ne ha incise alcune parti con una punta di ferro. Per ultime, le foglie d’oro zecchino sugli sfondi e sulle aureole. C’è voluta una settimana di lavoro. Ora padre Vyaceslav può iniziare a dipingere. Tempera all’uovo e pigmenti naturali. Tutto come mille anni fa. Parte dai toni più scuri. “E’ il passaggio che da sempre chiamiamo raskryshka: l’icona si apre e comincia a parlare”, dice. Il termine deriva da “raskryvat'”, che significa proprio “aprire”. Sono solo macchie cupe, adesso. Quando vi sovrapporrà veli di colore più chiari “tutto diverrà luce e l’icona rivelerà se stessa”.

ASCESI DIPINTA
Secondo la teologia ortodossa, l’icona esiste già, perché opera divina. Il suo senso è in ciò che eternamente rappresenta. L’artista è un mezzo di comunicazione. “L’icona è un libro scritto senza lettere”, spiega Padre Vyaceslav. Catechesi dipinta. Un immutabile e silenzioso racconto indirizzato ai credenti. Per questo la prospettiva nelle icone è rovesciata: le linee paiono convergere in un punto di fronte al dipinto, lo spazio pittorico va verso lo spettatore. “E’ il dipinto che entra in te: il fedele non guarda nell’icona, la ascolta”. L’icona si rivolge all’interiorità, induce una riflessione su se stessi, sulle virtù da esercitare per raggiungere Dio. E’ la definizione dell’ascesi, atteggiamento spirituale alle radici dell’ortodossia russa. Niente ombre, niente profondità. Tecnicamente, per l’artista è una sfida. I volti sono trasfigurati, fuori dal tempo: “liki” è la parola del russo ecclesiastico antico che usa Vyaceslav per definirli. Le immagini dei santi sono solo spirituali. Nell’accezione più ampia del termine, l’icona è un’opera astratta. “Con Giotto e la prospettiva l’arte occidentale ha scelto un modello esteticamente perfetto. L’arte russa ha sempre preferito la luce interiore e la verità etica”, dice l’iconografo. Rinascimento e Umanesimo la Russia li ha saltati a piè pari: i primi ritratti mondani sono posteriori al 1650. Arretratezza culturale? Superiorità morale rispetto all’Occidente decadente e corrotto, secondo un concetto connaturato all’ortodossia e ancora ben presente nella memoria storica dei russi.

TRACCE E PRESENZE
Padre Vyaceslav Savinykh ha molto in comune con Andrey Rublev (1360-1430), il leggendario “Giotto russo” vissuto tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, il più grande pittore di icone, venerato come santo dalla Chiesa ortodossa. Ne ha seguite le labili tracce, ha studiato ogni sua pennellata ancora visibile e continua a farlo perché ha “ancora molto da imparare”. Condivide la visione ascetica e armonica della vita e della religiosità che Rublev ebbe come monaco, da quel poco che si sa di lui. E che rappresentò in modo impareggiabile nelle sue opere. Settantacinque anni, studi all’Università delle arti Strogonov di Mosca, Vjaceslav “scrisse” la sua prima icona nel 1973. C’era l’Urss. Poche chiese aperte, poca richiesta. Ma la dimensione artistica e spirituale che scoprì lo coinvolse fino a cambiargli al vita. Continuò con le icone. La decisione di farsi monaco venne di conseguenza: “per raffigurare i santi serve uno stile di vita simile al loro”, dice oggi sorridendo. Nello studio di padre Vyaceslav c’è una foto di Nicola II, l’ultimo zar. La Chiesa ortodossa russa ha sempre servito il potere autocratico. Questo frate è un conservatore. E’ priore del monastero moscovita di Sant’Andronico , dove Andrey Rublev visse e lavorò, e dove ha sede il museo a lui intitolato – che raccoglie capolavori dell’arte sacra ortodossa dal XIII al XIX secolo.

La chiesa più antica nel monastero di Sant'Andronico a Mosca, dove oggi si trova anche il museo intitolato ad Andrej Rublev
La chiesa più antica nel monastero di Sant’Andronico a Mosca, dove oggi si trova anche il museo intitolato ad Andrej Rublev

La tomba di Rublev è qui, da qualche parte. Probabilmente – dicono gli archeologi – sotto la cattedrale del Salvatore, la chiesa più antica di Mosca. Nelle cripte più volte devastate da invasori e guerre civili son state trovate calzature e tonache di almeno due monaci importanti sepolti nell’anno della morte dell’artista. Gli altrettanto devastati archivi del monastero non aiutano a identificarli. Si sa solo che nel 1430 a Sant’ Andronico poco dopo la morte di Rublev scomparse anche il suo amico fraterno Danill Chorny, pittore di icone. La donna che vende i biglietti e i cataloghi del museo può raccontarvi storie di fruscii e ombre che popolano il monastero dopo la chiusura al pubblico, e poi la notte. E’ vero che chiunque abbia un minimo d’immaginazione una presenza antica e silenziosa e profonda la può sentire, tra queste mura. La sentì certamente Andrey Tarkovsky, che a Sant’Andronico girò molte scene del suo film “Andrey Rublev” (1966) , ispirato alla leggenda del santo-pittore. Una parabola sull’artista come creatore di bellezza in antitesi all’uomo “politico” distruttore e assassino, le cui atrocità il protagonista si trova ad osservare attonito fino a specchiarvisi con orrore. Il film racconta come i russi resistettero al giogo tataro grazie alla loro forza e creatività spirituali. Una critica in metafora del regime comunista (Breznev vietò il film). Con una riflessione sull’eredità della antica Rus’ pagana e sul misticismo ortodosso che nutrirono il pittore sacro divenuto simbolo dell’identità nazionale.

TRINITA’ METAFISICA
Nella cattedrale del Salvatore in Sant’Andronico restano solo tracce degli affreschi che Rublev vi dipinse. Anche l’iconostasi, il muro ligneo che divide la navata dal sancta sanctorum, era opera sua. Non esiste più da molto tempo. Quella di oggi raccoglie – tra altre – alcune icone di padre Vyaceslav. Il monaco si sofferma davanti a una sua “Trinità”. Ci ha lavorato per più di un anno. Segue il canone della “Trinità” di Rublev esposta alla Galleria Tretyakov , qui a Mosca. L’icona quattrocentesca è ricostruita in modo personale, moderno. Non nello stile, ma nell’aspetto complessivo, nella composizione. E’ pittura metafisica. Eppure sembra dipinta seicento anni fa, da Rublev. L’effetto poetico è quello che in musica ha un accordo sospeso: sta a chi guarda decidere se e come risolverlo. “Nell’icona il pittore segue i canoni ed evita l’arbitrio. Non per questo soffoca la sua individualità, che emerge sempre: è arte, oltre che rappresentazione sacra”, dice il monaco Vyaceslav. Come da tradizione, Vyaceslav Savinykh non firma: l’icona è opera di un individuo, ma frutto di un’esperienza e di una coscienza comuni. Ti deve far sentire parte di un tutto. Quest’arte che ha accompagnato mille anni di ortodossia russa esprime gli ideali spirituali di un intero popolo, nei quali la cultura nazionale, anche nella sua componente laica, tuttora si identifica.

ICONE DI UN POPOLO
Gli ortodossi russi pregano a occhi aperti, davanti a un’icona. E all’icona si confessano, alla presenza di un pope. Non è un oggetto decorativo. E’ la porta per entrare nella dimensione del sacro. “L’azione in atto davanti ai nostri occhi è al di fuori delle leggi dell’esistenza terrestre”, spiega il maggior studioso russo di icone Leonid Uspensky. L’esperienza è emozionale. E questo vale per tutta la liturgia ortodossa. Che è una liturgia popolare, legata in questo senso ad esperienze precristiane. Sono sempre stati pochi, i preti eruditi. Nelle chiese non ci sono panche, i fedeli si muovono di continuo. Vanno da un’icona all’altra per bruschi inchini e segni della croce. Mentre qualcuno fa la comunione, altri provano un coro e un pope va avanti con la messa. Anton Chechov descrive l’atmosfera nel suo racconto del 1866 “Notte di Pasqua”: la messa sembra un mercato pieno di gente in preda a “una continua, inconscia, infantile allegrezza”.

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Nelle celebrazioni della Pasqua, la festività più importante per i russi, le affinità della liturgia con i riti pagani di inizio primavera sono più evidenti che altrove. Il triplice bacio che ci si scambia alla mezzanotte e poi per tutta la domenica dicendo “Christos voskrese”, cioè “Cristo è risorto”, non è altro che un gesto di augurio e di speranza dopo l’inverno. La benedizione delle icone portate di casa in casa il lunedì dell’Angelo è un rito comunitario che – sotto altre forme – esisteva da millenni. La Chiesa ortodossa russa si riconosce completamente nella sua liturgia popolare, eredità pagane comprese. L’approccio al mistero divino è antirazionalistico. La mente umana non è in grado di comprenderlo. Solo la trascendenza spirituale permette di avvicinarvisi. Le icone sono il compendio e il fulcro di questa liturgia, di una visione mistica e non razionale della religiosità e della vita.

IDENTITA’
Con l’antirazionalismo religioso dell’ortodossia “riassunto” nelle icone si trovò in sintonia la sensibilità romantica dei giganti della letteratura ottocentesca e degli esponenti del movimento slavofilo. Gogol’, Dostoevsky, Tolstoy, Turgenev, il filosofo Vasily Rozanov e molti altri si recarono in pellegrinaggio ai santuari dei mistici ortodosso per cercare “l’anima russa”. In particolare il monastero di Optina Pustyn’, nella regione di Kaluga – circa 200 chilometri da Mosca – diventò il centro spirituale della coscienza nazionale. Il luogo si confaceva alla aspirazione di quegli intellettuali alla comunità. Era “un microcosmo sacro della loro Russia ideale”, ha scritto lo storico Orlando Figes. Le icone si diffusero in Russia nel X secolo. Arrivavano da Bisanzio. Per duecento anni furono dipinte secondo lo stile greco. Ma con il dominio dei tatari, Bisanzio divenne lontana. Le tavole sacre cominciarono ad avere un carattere originalmente russo. Fino alle vette artistiche raggiunte da Andrey Rublev. Fino a rappresentare l’unità spirituale della nazione.

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L’origine orientale del cristianesimo russo ha comportato che l’impero moscovita fosse una teocrazia comprendente Chiesa e Stato e che il sovrano avesse natura divina e fosse chiamato zar, come i cesari di Bisanzio e – prima ancora – di Roma. Con la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi, la Chiesa russa proclamò Mosca “Terza Roma”, ultima sede della “vera religione”, unica speranza di salvezza per il mondo cristiano. La coscienza messianica diventò l’ideologia dell’impero zarista, si rafforzò con l’isolamento dall’Occidente e agì per secoli, permeando la memoria storica dei russi. Resta un elemento imprescindibile per capire cosa succeda a Mosca, come la Russia percepisca il suo ruolo nel mondo e come la Russia venga dal mondo percepita. La storia del Paese e il suo presente passano anche attraverso i monasteri e le icone, in un filo rosso che unisce Andrey Rublev a un Vyaceslav Savinykh. E fende il tempo arrivando nello stesso luogo da cui iniziò a svolgersi: Sant’Andronico.