SILVANO DEL MONTE ATHOS, IL SANTO CHE LEGGEVA NEL LIBRO DEL COSMO

Il 27 marzo 2012, sul quotidiano “Il Corriere della Sera”, il grande intellettuale e scrittore Pietro Citati, recensì il libro “Nostalgia di Dio” delle edizioni Qiqajon della Comunità di Bose con la traduzione, a cura di Adalberto Mainardi, degli scritti di San Silvano del Monte Athos, una delle figure di maggiore importanza per l’Ortodossia, e la cristianità intera, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Riproponiamo di seguito l’importante testimonianza a beneficio dei lettori de “I sentieri dell’icona”.

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Quando era giovane, Silvano del Monte Athos, che diventò uno degli ultimi grandi santi ortodossi, era un ingenuo e mostruoso Pantagruele. Era nato nel 1866, nel governatorato di Tambo. Frequentò la scuola del suo villaggio solo per due inverni. A diciannove anni, era un giovane alto e robusto, che lavorava come carpentiere nella proprietà del principe Trubeckoj. Le ragazze lo amavano e lo corteggiavano. Una domenica di Pasqua fece, insieme alla famiglia, un pranzo abbondante, durante il quale mangiò molta carne. Nel pomeriggio, la madre propose di preparargli una frittata: il figlio accettò, e divorò un’ immensa frittata di cinquanta uova, come se fosse posseduto da un appetito insaziabile. Nelle sere di festa, andava all’ osteria, dove beveva tre litri di vodka senza ubriacarsi. Tutto ciò che era enorme, faticoso o doloroso sembrava fatto apposta per lui. Quando pranzava con i suoi compagni, prendeva nella cucina un paiolo di minestra bollente con le mani nude, e lo portava sino alla tavola. Con un pugno rompeva un grosso pezzo di legna. Percuoteva gli amici, e li gettava al suolo come fili di paglia. Un giorno, fu sul punto di uccidere uno dei suoi compagni. Fino al servizio militare, continuò così la sua esistenza di gigante rabelaisiano. Quand’ era bambino, il padre aveva ospitato per qualche giorno un venditore ambulantEsplora il significato del termine: Q uando era giovane, Silvano del Monte Athos, che diventò uno degli ultimi grandi santi ortodossi, era un ingenuo e mostruoso Pantagruele. Era nato nel 1866, nel governatorato di Tambo. Frequentò la scuola del suo villaggio solo per due inverni. A diciannove anni, era un giovane alto e robusto, che lavorava come carpentiere nella proprietà del principe Trubeckoj. Le ragazze lo amavano e lo corteggiavano. Una domenica di Pasqua fece, insieme alla famiglia, un pranzo abbondante, durante il quale mangiò molta carne. Nel pomeriggio, la madre propose di preparargli una frittata: il figlio accettò, e divorò un’ immensa frittata di cinquanta uova, come se fosse posseduto da un appetito insaziabile. Nelle sere di festa, andava all’ osteria, dove beveva tre litri di vodka senza ubriacarsi. Tutto ciò che era enorme, faticoso o doloroso sembrava fatto apposta per lui. Quando pranzava con i suoi compagni, prendeva nella cucina un paiolo di minestra bollente con le mani nude, e lo portava sino alla tavola. Con un pugno rompeva un grosso pezzo di legna. Percuoteva gli amici, e li gettava al suolo come fili di paglia. Un giorno, fu sul punto di uccidere uno dei suoi compagni. Fino al servizio militare, continuò così la sua esistenza di gigante rabelaisiano. Quand’ era bambino, il padre aveva ospitato per qualche giorno un venditore ambulante di libri, il quale cercava di dimostrargli che Cristo non era Dio, e anzi che Dio non esisteva. Diceva continuamente: «Ma dov’ è questo Dio?». Silvano bambino pensava fra sé: «Quando sarò grande, andrò a cercare questo Dio per tutta la terra». La ricerca cominciò presto. Durante il servizio militare, tra il 1886 e il 1892, pensava sempre a quel Cristo solitario e fuggiasco, al Monte Athos, dove Cristo era profondamente venerato, e al Giudizio Finale. Nell’ ottobre 1892, a ventisei anni, raggiunse il Monte Athos e non lo lasciò più, salvo un periodo in cui venne richiamato alle armi come riservista.

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Appena giunto, trascorse alcuni giorni in ritiro, per ricordarsi di tutti i peccati che aveva commesso: peccati, che credeva innumerevoli, mentre erano avvolti da una profonda innocenza del cuore. Annotò i peccati: poi li confessò a un padre spirituale, soggiogato da un ardente e irresistibile desiderio di pentimento. Il padre spirituale gli disse: «Tu hai confessato i tuoi peccati dinanzi a Dio: sappi che ti sono stati perdonati». Così Silvano cominciò la sua vita di monaco devotissimo. Lavorava al mulino, dove produceva ogni giorno più di otto quintali di farina. Era quasi analfabeta: ascoltava le lunghe prediche nella cappella del monastero; quelle prediche erano imbevute di immagini e idee della grande tradizione mistica bizantina; ed egli prese a leggere i testi originali. In primo luogo, Isacco di Ninive e Simeone il Nuovo Teologo: poi gli Apoftegmi dei padri del deserto, La scala del Paradiso di Giovanni Climaco e i testi di un mistico russo del diciannovesimo secolo, Serafino di Sarov. Sentì il bisogno di stendere per iscritto la folla di pensieri che gli tumultuava nella mente: riempiva foglietti, lettere, annotazioni in margine ai libri o ai cataloghi di fiori. Non componeva veri e propri saggi, sebbene Il lamento di Adamo sia un capolavoro letterario. Ora tutte le pagine di Silvano dell’ Athos sono raccolte in un libro, Nostalgia di Dio, ottimamente tradotto da Adalberto Mainardi (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, pp. 324, 25). La stessa casa editrice ha pubblicato Silvano del Monte Athos di Jean-Claude Larchet (pp. 398, 22). La mistica di san Silvano era una mistica della perdita, non della presenza della grazia di Dio. La figura fondamentale del suo mondo era Adamo. In paradiso, Adamo aveva conosciuto la dolcezza dell’ amore divino; e, dopo essere stato cacciato, soffriva amaramente e levava profondi gemiti. Le lacrime gli scorrevano sul volto, gli bagnavano il petto, e il deserto ascoltava i suoi lamenti. Il freddo e la fame lo torturavano: gli animali e gli uccelli, che in paradiso lo avevano amato, ora avevano paura di lui e fuggivano davanti ai suoi passi. L’ anima di Adamo era tormentata da un solo pensiero: «Ho fatto soffrire il Dio che amo». Non piangeva per la bellezza del paradiso perduto, ma perché aveva ferito l’ amore di Dio, che continuava ad attrarre la sua anima fino in cielo. Ora Adamo viveva soltanto di nostalgia. Languiva senza posa per Dio, lo pregava giorno e notte, perché il nome del Signore era dolce e dolcemente desiderato. Cercava insaziabilmente di vedere l’ Invisibile e di afferrare l’ Inafferrabile. Quando il Signore lo visitava e fuggiva, egli lo cercava: «Dove sei mia luce? Dove sei mia gioia? La tua impronta effonde profumi nella mia anima, ma tu non ci sei, e la mia anima ha nostalgia di te. Perché mi hai nascosto il tuo volto? Da lungo tempo la mia anima non ti vede, e langue per te e ti cerca in lacrime. Dov’ è il mio Signore? Perché non ti vedo nella mia anima? Cosa ti impedisce di vivere in me?». La condizione della nostalgia di Dio era la più alta che l’ uomo potesse conoscere: la aveva conosciuta Adamo; ma, per san Silvano e gli uomini moderni, era una condizione terribilmente difficile da conservare. La nostalgia li abbandonava: tutto diventava vuoto e deserto; ed era impossibile sopportare la vita. Così, a san Silvano, non restava che una soluzione: abitare nell’ umiltà, che è il cuore metafisico del Cristianesimo; se Cristo si era incarnato ed era morto sulla croce per umiltà, egli doveva imitarlo, senza sosta né fine. Quando riusciva a essere umile, come gli chiedeva Gesù, la sua vita diventava lieve e gioiosa, tutte le cose erano care allo spirito, la quiete, la pace e il ristoro discendevano nell’ animo affaticato e aggravato. Silvano vedeva nell’ onda della ripetizione una forza musicale e consolatrice; e non fece che ripetere sino all’ ultimo giorno due versetti di Matteo, sempre eguali o lievemente variati, come se contenessero tutto il significato del Cristianesimo. Quando san Silvano pregava, la preghiera veniva svuotata di ogni contenuto e di ogni significato preciso; e si riduceva alla semplice affermazione e ripetizione del nome e della presenza di Cristo. Come quella dei mistici Sufi, che si riduceva anch’ essa all’ affermazione dell’ esistenza di Allah. Il fedele diceva: «Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me». Nient’ altro che queste nude parole. Ma questa preghiera non doveva smettere mai: continua, incessante, come è continua la presenza di Cristo nel mondo. Secondo Isacco di Ninive, san Paolo aveva detto: «Lo spirito, quando abita nell’ uomo, non smette di pregare: prega continuamente». «Allora – Isacco aveva aggiunto – nè quando dorme nè quando è sveglio la preghiera del fedele cessa nella sua anima; ma, sia che mangi, sia che beva, sia che dorma, sia che faccia qualcosa, e perfino quando è immerso nel sonno, le esalazioni della preghiera si levano nel suo cuore senza fatica. Allora ha ottenuto la preghiera non per un periodo limitato, ma sempre; e quando è finita di fuori, essa è celebrata nel suo segreto». Mentre san Silvano pregava, il cuore diventava tenero, umido. Gli occhi si riempivano di lacrime soavi: una sorgente, un fiume incessante. Giovanni Climaco ricordava che la perfezione consisteva nel piangere quando si prega: cioè sempre. Le lacrime discendevano dagli occhi del fedele come acque di torrente: mescolandosi alle preghiere, alle letture, alla meditazione, al cibo e alla bevanda. Il fedele – diceva Simeone il Nuovo Teologo – è «una sorgente che sgorga»: acqua viva, che danza e balza sempre e innaffia le anime con profusione, e come da una cisterna si rovescia su coloro che sono vicini e coloro che sono lontani, e fa traboccare le anime che ricevono la parola con fede. Non erano soltanto lacrime di pentimento e di compunzione. Dapprima lacrime di tristezza, rade e amare, poi sempre più abbondanti, sempre più dolci, vera e propria «rugiada celeste», che si trasformava in un radioso pianto di gioia, come se la gioia fosse la sostanza stessa del dolore cristiano. Era la grazia: questa fontana, diceva Giovanni, «che zampilla in noi fino alla vita eterna». Come la preghiera, l’amore non aveva fine. San Silvano aveva vissuto a lungo sulla terra, e amava la bellezza terrena: il cielo e il sole, i giardini e il mare e i fiori, i boschi e i prati, e la musica, e tutto ciò che sulla terra gli dava gioia. Viveva in una condizione di perenne felicità pasquale: «Ogni cosa è buona: il mare magnifico, la gente amabile, la natura amabile, il corpo leggero». Come Serafino di Sarov, era convinto che il primo libro scritto da Dio fosse il cosmo; e avrebbe voluto allontanarsi dal monastero per nascondersi nella foresta, tra gli orsi, le volpi, le lepri, dando ai luoghi vicini i nomi delle località evangeliche per rivivere mentalmente la vita del Salvatore. Aveva compassione per ogni creatura vivente. Una volta che uccise una mosca, pianse per tre giorni e per tre notti, scorgendo in quell’insetto quasi ripugnante le figure di tutti gli esseri umani e animali e vegetali che Dio aveva creato. «Verde è la foglia degli alberi – si rimproverò aspramente – e tu l’hai strappata senza nessuna ragione». Non dobbiamo meravigliarci se quest’uomo, che amava le foglie e le mosche, ci abbia dato una delle più tremende descrizioni dell’inferno in cui vive l’uomo: in tutti i tempi, e specialmente nei tempi moderni. Immaginava che i demòni riempissero la sua cella con le loro immense figure: per evitarli, si voltava prostrandosi davanti alle icone, e i demòni si collocavano dinanzi a esse, aspettando che egli si inchinasse. Gli dicevano: «Tu ora sei santo», oppure: «Tu non sarai mai salvato». Dio gli aveva dato un senso acutissimo del peccato: gli aveva fatto conoscere la sua essenza sottile con una tale penetrazione e intensità, che gli sembrava di vivere tra le fiamme e i tormenti dell’ inferno, perfino lì, nel santo monastero del Monte Athos. All’improvviso, si accorgeva che aveva perso la grazia: l’anima si sentiva rifiutata, cacciata, gettata via, immersa nelle tenebre. Diceva: «Dove sei, Signore, perché mi hai abbandonato?». E ricordava una frase di Giovanni Climaco: «Le sofferenze di coloro che hanno perduto la grazia sono molto superiori a quelle dei condannati a morte, e di coloro che piangono i propri morti». Proprio in quel momento estremo, presso l’abisso della perdizione, Dio gli diceva: «Tieni la tua mente agli inferi, e non disperare». San Silvano sapeva che la nostra condizione abituale è il peccato, la tragedia, l’inferno. Ma nulla era più grave che essere offuscato dalla disperazione, dicendo a se stesso: «Non mi salverò». In qualsiasi luogo egli abitasse, anche nel punto più lugubre e profondo dell’inferno, scendeva l’alito della speranza, il soffio quieto e indomabile della carità cristiana.
Pietro Citati